Gli anni '60 hanno visto formarsi decine e decine di gruppi garage-rock, vivere giusto il tempo di un disco, magari anche di una sola hit. Meteore che vivevano anche il tempo di una sola stagione.
L'industria musicale, grazie a tv e radio, stava esplodendo in tutto il suo fragore così come la ventata psichedelica e la cultura underground, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna.

Proprio nella seconda metà degli anni '60, in California, grazie a Sean Bonniwell, talentuoso chitarrista-cantante nativo di San Josè, nascono i Music Machine. Meteora si, ma luminosissima.

Per alcuni versi la risposta ad est di quanto accadeva a New York nella Factory di Warhol con Lou Reed e soci... e credetemi non sto esagerando, basta ascoltarli e vederli nella copertina di "(Turn On) The Music Machine", primo ed unico disco della band.

Look dark, tutti vestiti di nero, caschetto d'ordinanza, con tanto di guanto in pelle sulla mano destra, quella con cui suonavano.

Un disco strepitoso, davvero un gioiellino, che negli anni è diventato un vero e proprio cult. La voce intensa di Bonniwell, deus ex machina del gruppo, quando si staglia sui riff martellanti è capace di slanci feroci, incalzanti e violenti, come nello psicotico singolo "Talk Talk", dagli echi "beefheartiani", "Wrong", "Trouble" e "Double Yellow Line", ma anche di momenti incredibilmente romantici, più lenti e melodici, come "Cherry Cherry", cover di Neil Diamond, in chiave spensierata, l'ipnotica "Some Other Drum" o l'acida versione di "Hey Joe".

Nel disco compaiono appunto alcune cover, una consuetudine in quel periodo, ovviamente per richiamare l'attenzione dei possibili acquirenti, ma, credetemi, la versione di "Taxman" dei Beatles è quasi meglio dell'originale dei Fab Four, se possibile.

Il gruppo per alcuni versi anticipatore anche di una certa attitudine e di un suono squisitamente punk, purtroppo, durò il tempo di un album, causa scelte sbagliate ed incomprensioni interne al gruppo.

Chissà dove sarebbero potuti arrivare.

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