Un tramonto pallido e senza sole, una casetta di legno, la band dentro che prova. Grigio su grigio. Questa la copertina del settimo album dei The National, Sleep Well Beast, uscito a settembre 2017 e registrato in parte al Funkhaus Studio di Berlino e nella natura selvaggia di Upstate New York. Una casa. Come se i cinque di Cincinnati, Ohio, avessero preso totale confidenza con la loro musica, riconoscendola e abitandone ogni angolo. Arrivando più o meno contemporaneamente alla piena consapevolezza artistica e umana. Proprio qui sta la magia di questo disco, capace di parlare con rara profondità e sensibilità di noi stessi e dei nostri tempi. Di imperi di plastica -i fake empires di cui i National cantavano già ai tempi di Boxer, che “desiderano un popolo passivo di consumatori e spettatori della politica, una comunità di persone frazionata e isolata, incapace di intaccare il loro potere” (Noam Chomsky dixit)- e figli che crescono.

Si parla di imperi nella bellissima “Walk It Back”, quando voci distanti, pronunciate in origine nella Casa Bianca da qualcuno a Ron Sunskind che era lì per il New York Times, spiegano con freddezza che “la gente come voi vive ancora in quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà. Credete che le soluzioni emergano dal vostro studio giudizioso della realtà percepibile. Non è più questo il modo in cui funziona il mondo. Siamo un impero ora, e quando agiamo creiamo la nostra propria realtà. E mentre voi studiate tale realtà - giudiziosamente, come volete - noi agiremo di nuovo, creando altre nuove realtà, che potrete studiare ancora, ed è così che le cose si sistemeranno. Noi siamo attori della storia e a voi, tutti voi, non resterà altro che studiare quello che noi facciamo" (la musica nel frattempo sembra sorvolare lo spazio cosmico alla ricerca di un briciolo di onestà, dolcezza e semplicità).

È un album stupendo, nella loro discografia quello che più lavora di sottrazione -in questo senso il più maturo e moderno. Pur rimanendo fedele a sé stessa, la band oggi esplora nuove vie espressive, concentrandosi su un utilizzo finora inedito dell'elettronica. È il prologo di un percorso di destrutturazione, nel quale le canzoni vengono spezzettate, rimasticate, rielaborate con l'apporto della tecnologia -stesso percorso che sembrano aver preso due grandi cantautori della nostra epoca, Justin Vernon dei Bon Iver e Keaton Henson. Un riflesso naturale dei tempi, verrebbe da dire. Dei “modi strani in cui il nostro mondo e la nostra idea d'identità mutano - a volte anche dalla sera alla mattina” come ha spiegato Matt Berninger a Pitchfork a proposito della notevole “The System Only Dreams in Total Darkness”. Qui come in “Day I Die” le chitarre dei fratelli Aaron e Bryce Dessner, calde e glaciali, increspano l’onda con crescendo e assoli da manuale. Altrove i pianoforti o le astratte, delicate carezze in musica permettono a molto del materiale di continuare a suonare familiare e rassicurante, quasi consolante. In grado di rendere la realtà che ci circonda più tollerabile.

Hanno riconosciuto il loro mondo ai tempi di High Violet (a detta dello stesso Berninger), adesso ne stanno semplicemente percorrendo le strade con sensibilità e coraggio, incontrando in questa fuga verso l’alto sentimenti più chiari, più dolorosi e più sopportabili (in “Walk It Back”, Matt canta “…non reagirò…/ …ma non crollerò”). A volte il dolore e la frustrazione si fanno strada sottopelle, somministrati in microdosi, in un rapporto di coppia come nei riguardi del mondo e di se stessi, quando manca intimità o quando questa intimità viene violata -persino attraverso il cibo che mangiamo o le cose cui siamo spinti a credere (“Il dolore mi trovò quando ero giovane. Il dolore aspettò, il dolore vinse. Mi mettono il dolore sulla pillola. E' nel mio miele, è nel mio latte” cantava Matt Berninger in “Sorrow” un paio d’album fa)-. In fondo a tutto, un senso di rinnovata accettazione (“Guilty Party”).

La bestia del titolo -ha spiegato la band- rappresenta il futuro, i nostri figli che la sera si addormentano lasciando i padri con un mucchio di domande ai quali i National qui non danno risposte. A proposito del titolo di “I’ll Still Destroy You”, Matt sostiene che “per quanto tu ti possa sforzare, i tuoi figli finiranno con l'apprendere le cose principalmente dai tuoi comportamenti, o dalla tua alchimia, o dal tuo DNA. In un modo o nell'altro gran parte delle cose che ti porti dietro, le passerai a loro. Bisogna stare attenti a scegliere quali di queste cose passare, che tipo di comportamenti vuoi che i tuoi figli ti vedano assumere. Io vedo i miei amici, la mia famiglia e mia figlia come un'estensione di una versione interconnessa di noi. L'idea è che, per quanto provi a proteggerli, in un modo o nell'altro le tue cattive abitudini finiranno dentro di loro. Quindi è in un certo senso una cosa affettuosa."

Tornano spesso i figli, nelle interviste, ed è proprio questo bisogno di innocenza, serietà, coraggio, esperienza, semplicità, coerenza che si respira ascoltando l’album. Quanto sappiamo di noi stessi e quanto vogliamo che rimanga alle generazioni future.

Matt è stato molto diretto: "lo schifo, la follia hanno influenzato questo album. Non credo che Trump possa durare ancora tanto. C'è un vero cancro in America, dobbiamo farci i conti. Mi riferisco alla diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e nelle opportunità. Anche la chiesa cattolica fa la sua parte: omofobia, donne che non sono libere di decidere del proprio corpo, corruzione, capitalismo...”. Ed è così che si sovrappongono dimensioni familiari, più intime -i figli e la famiglia- e dimensioni universali, quasi stellari, riguardanti l’umanità. Legate fra loro, aggredite e bisognose di protezione. “Non ho posizioni. Nessun punto di vista o visione. Sto solo cercando di rimanere in contatto con qualunque cosa io sia ancora in contatto” (“I’ll Still Destroy You”).

Sleep Well Beast si rivela quindi un’opera intima e cosmica, un album (anche) sui fantasmi di una nazione, quelli che la definiscono e che ne creano l'identità. E allora dormi bene bestia, dentro questi tempi bui, fianco a fianco con i tuoi fantasmi. Dentro queste armonie spezzate, queste integrità solo sfiorate, questi cuori sfibrati. Che il sonno ti sia leggero. E come canta Justin Vernon in “Calgary” “se vengono i demoni, che si plachino”.

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