Ho letto critiche contrastanti relativamente questo ultimo The National, 'Sleep Well Beast', pubblicato dal gruppo di Cincinnati, Ohio, lo scorso otto settembre.

Chiaramente parliamo di uno dei dischi più attesi dell'anno, considerando il semplice fatto che i National non sono più esattamente una realtà 'indie' in senso stretto, ma una band affermata e che con questo lavoro, registrato ai Long Pond Studios di Hudson Valley, New York, pubblicano il settimo disco registrato in studio.

Mi piace l'idea di recensire questo disco e di farlo in una maniera positiva e questo in modo particolare per il semplice fatto che non sono mai stato un grande ascoltatore di questo gruppo e che non mi posso in nessun modo considerare un loro fan storico.

Va detto che in via generale la stampa specializzata è stata molto generosa nel recensire questo disco. Lo stesso vale per quelli che sono i principali punti di riferimento nel mondo del world-wide-web internazionale (Pitchfork, The Guardian...) e italiano.

Ciononostante si avverte nei confronti di questo gruppo da parte di molti quella tipica 'stanchezza' che a un certo punto subentra necessariamente da parte degli ascoltatori nei confronti di qualsiasi realtà che non costituisca necessariamente una novità o che comunque a un certo punto compie a livello di ascoltatori e di audience quel salto di qualità che porta una band di nicchia a diventare famosa.

Il successo comunque è storicamente un'arma a doppio taglio: perché poi dipende anche da quello che fai una volta che lo hai ottenuto. La verità è che quando fai le cose e queste vengono (in questo caso) ascoltate, ti sottoponi inevitabilmente al giudizio degli ascoltatori. E quanti più ascoltatori riesci a raggiungere con la tua musica, tanto più possono esservi critiche e osservazioni di tutti i tipi.

Questo è qualche cosa che può spaventare: bisogna avere le spalle larghe per riuscirsene a fregare. Certo nel caso dei National non parliamo di un successo come quello che può valere per i Rolling Stones, ma è pure vero che personalità straripanti come quelle di Mick Jagger, Keef ecc. sono difficili da trovare.

Nella loro piccola dimensione di grande gruppo indie riconosciuto a livello internazionale, così, i National si vanno a ricercare con questo disco un loro microcosmo emozionale e nel quale, liberandosi secondo me a tutti gli effetti da quella etichetta di ennesima band revival della new-wave, grazie a una sapiente scrittura delle canzoni e un gusto particolare negli arrangiamenti, realizzano quello che considero un piccolo capolavoro nel genere del pop cantautorale di quest'anno.

'Sleep Well Beast' mi ricorda molto un disco che ho molto amato l'anno scorso, che poi sarebbe 'A Little Death' dei meno noti My Jerusalem: le tonalità sono chiaramente crepucolari, come da tradizione del gruppo, ma quello che emerge è in particolare un importante contenuto sul piano puramente emotivo.

In pratica una collezione di lamenti notturni, 'Sleep Well Beast' è una specie di ninna nanna che culla l'ascoltatore in una rassicurante scala di grigi e di luci soffuse e che alla fine lo fa sognare con gli occhi aperti facendo invece addormentare quella 'bestia' che tutti quanti ci portiamo dentro e che abbiamo bisogno di tenere a bada per purificare la nostra anima.

Forse uno dei limiti del disco è la non particolare varietà tra una traccia e l'altra, ma questo è qualche cosa che non si deve pretendere necessariamente da un lavoro di questo tipo che non si propone certo di proporre qualche cosa di innovativo, ma di puntare invece sull'aspetto puramente emozionale e sui contenuti delle singole canzoni per quello che riguarda le atmosfere e i suoni e il semplice songwriting.

Alcune canzoni come 'Day I Die', il singolo 'The System Only Dreams In Total Darkness', la ballata 'I'll Still Destroy You' sono più marcatamente pop e forse più nel segno della tradizione art-rock della band, ma la vera sorpresa e i contenuti più importanti del disco sono contenuti nel resto del pacchetto delle canzoni che compongono l'album.

Crepuscolari sessioni di pianoforte affette da suggestioni dub-step come 'Nobody Else Will Be There' oppure 'Guilty Party' (con alcune suggestioni dei primi Xiu Xiu), il gospel di 'Born To Beg', i rimandi a Nick Cave in 'Turtleneck', la struggente 'Carin At The Liquor Store', la delicatezza di 'Dark Side Of The Gym' e la liquida ubriacatura della title-track che è un vero e proprio pugno nello stomaco, sono le canzoni che costituiscono il vero 'corpus' ideologico e che meglio rappresenta i propositi del gruppo in questo loro settimo episodio discografico in studio.

Penso sinceramente che questo sia un buon disco.

Una definizione forse banale in un mondo dove bisogna sempre ricercare qualche cosa di nuovo da fare e da dire. Ma francamente per questa volta non ho nessuno spunto particolare e mi limito semplicemente a suggerire l'ascolto e lasciare scivolare una canzone dietro l'altra e lasciarvi avvolgere candidamente in un ideale mantello di rassicurante quiete.

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