Quando si vive all'interno di un panorama magmatico e complicato come quello del mercato discografico del metal, si rischia sempre di incappare in complicazioni varie, problemi con le case discografiche, cosi che il flop attenda lì, dietro l'angolo. Tante, troppe band hanno già subito situazioni del genere, ma questo non sembra essere un problema dei tedeschi The ocean, giunti con "Anthropocentric" al quinto album. Nel lasso di tempo intercorso tra il debutto "Fluxion" del 2004 e questo "Anthropocentric" del 2010, la band è passata da un progetto colletivo ad una vera e propria realtà musicale. Membro stabile è Robin Staps, tra i promotori del progetto e ormai diventato leader indiscusso. Egli ha confermato alla voce Loic Rossetti, già vocalist nel "fratello" di quest'album ovvero "Heliocentric". Infatti l'album in questione si inscrive in quella riflessione globale sulla nascita, lo sviluppo e le conseguenze del cristianesimo, con tutte le filosofie e le implicazioni che sono derivate da esso che la band aveva in parte già trattato nel precedente "Heliocentric".

La band tedesca unisce quindi arte e cultura, arrivando a trattare temi complessi che ad un'analisi superficiale sembrerebbero non conciliarsi perfettamente con la musica. Ma i The ocean sembrano sapere davvero cosa vogliano e il risultato è di assoluto livello e conferma quanto di ottimo la band ci aveva proposto soltanto alcuni mesi prima con "Heliocentric". Sulla scia di quel lavoro nasce "Anthropocentric": lo stile che lo contraddistingue è un mix originale di riffoni sludge dal suono estremamente moderno, incursioni ritmiche che ricordano i Tool di "Undertow" e qualche fugace apparizione dal sapore post rock che contribuisce a progettare un'architettura sonora convincente e varia.

Il primo capitolo di questo dittico filosofico/musicale sulla cristianità aveva indugiato in particolare le contraddizioni insite nella Chiesa, nel cristianesimo e anche nelle teorie scientifiche imparentate ad esso (vedi "geocentrismo"). Con "Anthropocentric" il gruppo continua l'esplorazione sulla religione e si concentra ancora una volta nel tentativo di smascherare le convinzioni su cui da migliaia di anni il cristianesimo si regge. Per far questo, oltre ad una grande conoscenza dei temi trattati, vengono chiamati in causa personaggi del calibro di Friedrich Nietzsche, David Hume e Fedor Dostoevskij (ma ce ne sarebbero tanti altri da citare). Soprattutto l'autore russo ha una notevole importanza nello sviluppo del concept: la sua opera "I fratelli Karamazov" viene eviscerata continuamente, in particolare per quanto riguarda il famoso dialogo tra i due fratelli Ivan e Alyoscha. L'uno ateo, l'altro monaco e profondamente ancorato ai suoi principi. Su questi due binari si gioca gran parte dell'album così come due sono le caratteristiche stilistiche principali: i pochi momenti di delicatezza sonora non sono più affidati, come accadeva in "Heliocentric" al pianoforte o agli archi, ma bensì al suono polveroso delle chitarre acustiche e alla stessa chitarra elettrica utilizzata per fini più "soffici".

Detto ciò non aspettatevi dolci e suadenti ballate sul destino dell'universo e dell'umanita, anche se a dire il vero la conclusiva (e splendidamente raffinata) "The almightiness contradiction" è proprio questo. Infatti saranno pochi i momenti di rilassatezza anche se questi, come "For he that wavereth..." sono vere e proprie gemme di melodia. Rispetto al precedente lavoro il sound si è appensantito e il risultato è un album più potente ed aggressivo, a tratti ruvido, sicuramente meno intimista di "Heliocentric": le mazzate metalliche "Sewers of the soul" e "Heaven TV" ne sono il lampante esempio. La band si gongola nello "sludge culturale", creando composizioni complesse ed evocative come la titletrack, così come di assoluto livello sono il primo e il terzo capitolo del trittico intitolato "The grand inquisitor": "Karamazov baseness" alterna sfuriate dal sapore thrash a momenti più riflessivi, che emergono grazie alla clean vocal di Loic Rossetti, mentre "A tiny grain of faith" è una fugace song dal sapore allucinato e ottocentesco, con una fulminea inserzione di violino.

"Anthropocentric" era una sfida ardua per i The ocean, chiamati ancora una volta a doversi confermare. Il loro genere e il loro modo di proporre la musica non li porta certo ad essere diretti e facilmente ascoltabili, ma la classe e l'originalità si evince fin dal primo ascolto. A ciò unite una cultura vasta ed un'ottima capacità di unirla alle note e il risultato è di assoluto livello. Un disco concettualmente elevato e degno di essere ascoltato. La band tedesca si conferma una delle migliori nel panorama mondiale e sicuramente una di quelle più lanciate per ridare sfarzo e linfa al metal in generale, sempre più in declino negli ultimi anni.

1. "Anthropocentric" (9:24)
2. "The Grand Inquisitor I: Karamazov Baseness" (5:02)
3. "She Was The Universe" (5:39)
4. "For He That Wavereth..." (2:08)
5. "The Grand Inquisitor II: Roots & Locusts" (6:33)
6. "The Grand Inquisitor III: A Tiny Grain Of Faith" (1:56)
7. "Sewers Of The Soul" (3:44)
8. "Wille Zum Untergang" (6:03)
9. "Heaven TV" (5:05)
10. "The Almightiness Contradiction" (4:34)

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