1981: ormai i Police sono il gruppo più famoso al mondo. Nel 1980 hanno avuto il permesso di suonare addirittura ad Atene, all'ombra del Partenone - un onore, all'epoca, toccato solo ai Rolling Stones. Sting, ormai sex-symbol di fama mondiale, diventa anche il padre-padrone della band, e comincia a trattare gli altri due come comprimari -  per la furia di Copeland, tenuta a freno dal mite Summers.  

Ma Sting non si ferma qui. Dopo il grande successo commerciale del mediocre "Zenyatta Mondatta", per il nuovo album il cantante cade nella tentazione dello spirito di novità e cambia produttore (Hugh Padham), per realizzare un progetto più elettronico. Il risultato è un album tanto cupo nei testi quanto barocco nella musica. Se fossero andati oltre, Sting e Padham avrebbero generato un impiastro sonoro. Ma, probabilmente, grazie a Summers e Copeland furono evitate le derive manieristiche.

Benché uomo molto britannico, Andy Summers ha pronunciato parole di fuoco contro questa conversione elettronica di Sting: "Con tutti questi sintetizzatori, la leggendaria rozzezza dei Police, con la loro devastante dinamica, è andata perduta. In questo album c'è un cantante protagonista, e due spalle che lo aiutano a fare le sue pop-songs". Esagerato, ma con molta verità dalla sua.

"Ghost in the Machine" annovera 11 brani. Il meglio si trova nelle 3 canzoni iniziali e nelle 3 finali: "Spirits in the Material World" (bel pezzo synth, con un ottimo Sting nonostante le innumerevoli e assurde sovraincisioni della sua voce); "Every Little Thing..." (capolavoro pop, con splendida progressione introduttiva di piano e bel ritornello magnificamente sostenuto da Copeland); "Invisible Sun" (forse il massimo capolavoro dei Police, con un Summers calligrafico e un Copeland stupendamente sobrio che rendono quasi solenne un pezzo cupissimo che parla di chi vive nelle zone di guerra); "Omegaman" (eccellente pop-rock di Summers, dal ritornello esplosivo); "Secret Journey" (con un testo che parla del viaggio mistico fuori da se stessi e dal proprio egoismo); Darkness" (bellissimo lento al piano di Copeland, con magnifici contrappunti feedback di Summers, ed eccellente conclusione dell'album, anche se "Invisible Sun" sarebbe stato meglio).

Le canzoni centrali, pur belle ritmicamente, sono esercizi di stile con melodie inesistenti e quindi, alla fin fine, anonime. Sorprende che un indubbio talento melodico come Sting, qui non abbia trovato una melodia decente.

Se i poliziotti non avessero sprecato i gioielli dell'anno precedente ("Driven to Tears", "Shadows in the Rain" e lo splendido strumentale "Behind the Camel") per l'inutile "Zenyatta Mondatta", "Ghost in the Machine" sarebbe un disco senz'altro superiore a "Reggatta de Blanc". Così com'è, è un 3.5 arrotondabile. 

4 album in 4 anni e innumerevoli concerti nel mondo. È il momento di fermarsi per una pausa. Grazie a questa pausa, la prima dal 1978, i tre, nonostante furibondi litigi, tireranno fuori il loro massimo capolavoro, il loro leggendario canto del cigno.

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