Non si può proprio dire che i The Police abbiano fatto parte di quei complessi che si servivano di un interminabile periodo di gravidanza prima di  attuare  il concepimento di un  nuovo disco. "Ghost In The Machine" si  affaccia sul mercato nell'ottobre del 1981 a completamento di un'altra incandescente tournèe iniziata durante l'estate del 1980 con  il Superbowl di Milton Keynes (UK) e  conclusasi dall'altra parte del globo solo alla fine del febbraio successivo, all'Entertainment Centre in quel di Perth. Anche quest'ultimo capitolo della storia del gruppo ci ricorda che i "tre" debbono riconoscere molto a quell'atmosfera di novità musicale che li ha accompagnati dagli esordi, concedendo loro l'incredibile chance di creare un mondo sonoro distintosi per essere istintivo e diretto, come l'atteggiamento puro e senza interposizioni.

Il titolo dell'album è preso direttamente da un libro di Arthur Koestler, dove viene ad essere affermata  la teoria secondo cui le tendenze autodistruttive degli esseri umani, possono essere attenuate con l'aiuto di integratori chimici che vanno ad agire sulla loro parte più irrazionale e violenta. Un mezzo, questo disco, attraverso cui Sting descrive se stesso dipingendo la sua persona mostrando ancor di più che nel passato, una particolare cura nei testi dal forte sapore autobiografico.

Un accenno di rullata dà il via a "Spirits In the Material World" con una introduzione da semi-danza dal ritmo ternario, il cui andamento quasi costante  ben si coniuga con il cantato corale di Sting, sicuramente rinnovato rispetto ai precedenti  lavori, creando un brano che è la perfetta sintesi di ritmi e sonorità  che piloteranno  la nuova british invasion che verrà di lì a poco"Every Little Thing She Does Is Magic" - che viene pubblicato in contemporanea anche come singolo -, ben rappresenta la  nuova (temporanea!?) identità musicale del  trio, facendo convergere in quattro minuti un'iniziale e delicata melodia su un soffuso tappeto di synth in cui  l'accompagnamento al piano porta  dritto ad uno dei refrain più orecchiabili dell'album senza mai cadere nella banalità, nonostante l' "ioooooo" nel  finale quasi a voler rappresentare l'onnipresenza del marchio di fabbrica.  A dispetto di una certezza oramai consolidata, mi preme sottolineare che ad anticipare di qualche settimana l'uscita di GITM  è stato proprio "Invisible Sun", dove un cupo tappeto di  tastiere ed  una ritmica  umbratile sono  gli elementi  che meglio si attagliano per poter affrontare il  difficile tema sull'eterna disputa britannico/irlandese, che servirà  al gruppo per  girare il  clip  più austero della loro intera videografia. Questo disco presenta un vero e proprio distacco dal reggae degli esordi puntando dritto ad un catchy pop, che trova nella moderna semplicità di "Too Much Information" -  che  affronta  il  tema   della computer  age  degli  anni '80 ("too much information running through my brain, too much information driving me insane") e nella psicotica "Demolition Man" dove la sezione fiati rafforza le direttive sonore date dal fremente basso ben dirette da un Summer in gran forma, che ben si adeguano alle dure lyrics che poco lasciano all'immaginazione ("I'm a walking nightmare, an arsenal of doom I kill conversation as I walk into the room"). Il piacevole giro di accordi di "Hungry For You" non è assolutamente compensato dal cantato in francese di Sting, che discretamente si riguadagna credito nell'interpretare l'incalzante "Rehumanize Yourself", castigata a mio parere dalla presenza forse troppo noisy del sax.
Oltre ai brani in apertura quello che sicuramente si candiderà a vedere un gran coinvolgimento di pubblico nei live-show ha il titolo di "One World (Not Three)", che oltre ad avere un testo che oggi potrebbe indurre molti di noi alla riflessione in merito ai paesi dove un pezzo di pane può rappresentare un lusso per molti ancora oggi ("The third world breathes our air tomorrow we live on the time we borrow In our orld there's no time for sorrow in their world there is no tomorrow"), spiattella un ritornello arguto e brillante al quale non ci si può sottrarre dal cantare. Il contributo compositivo di Summers è rappresentato da "Omegaman" dove l'energia di gruppo viene ad esprimersi al meglio  acendo da perfetto ingrediente  ad un testo dai toni oscuri, dove viene affrontato il tema della  personificazione di un Superman moderno indaffarato con i problemi quotidiani ("The night came down,  jungle  sounds  were  in  my  ears  city  screams  are all I've heard in twenty  years). La penna di Copeland  si  esprime nella flebile e compassata atmosfera di "Darkness" (che personalmente considero il giusto seguito dell'onirica "Secret Journey"), in cui viene affermata la facilità di sognare da una comoda sedia quanto la difficoltà a realizzare i propri propositi una volta raggiunta la consapevolezza di avere i piedi per terra.

Un  disco che  per quanto  possa non aver soddisfatto pienamente le attese dello zoccolo duro dei  sostenitori del gruppo, rimane senza dubbio una pietra miliare per il sound ottenuto, nonchè la manifestazione più concreta per il coraggio dei tre ad aver messo in gioco la propria reputazione, osando, con un album  le cui sonorità, seppur strizzando l'occhio ad una maggior commercialità  (che non è sempre sinonimo di "vendersi al mercato") mai rischia di passare per un prodotto fine a sè stesso.   

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