I primi The Provenance hanno inciso due dei miei dischi preferiti. "25th Hour; Bleeding" e "Still at arms length" (purtroppo non ho mai avuto il piacere di ascoltare il successivo "How would you like to be spat at?"), pubblicati per la nostrana Scarlet Records, sono immensi capolavori suggellati in atmosfere malsane, tra disperazione e follia, violento death metal con influenze gotiche (ma chiariamo subito che di canonico gothic metal non c'è nemmeno l'ombra) e con un tocco seventies ottenuto grazie al particolare uso di hammond e flauto traverso, con vocals molto varie ed emozionanti. Lavorati sconosciuti ai più in Italia, ma praticamente apprezzati da tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarli e di coglierne l'oscuro e morboso fascino. Loro sono innovativi e geniali poeti dello scoramento e della disillusione, del male che anima la nostra società e dei fanatismi, degli spauracchi e dei sempre più frenetici modi di vivere del nuovo millennio; la loro musica è puro cinismo fatto di colante liquido nero, talmente opaco da non lasciare intravedere la minima speranza e circondarci delle più totale negatività, sconfinando nella follia e nell'autolesionismo. Una musica che riesce a farsi sentire direttamente dentro allo stomaco anziché nelle orecchie.

Tuttavia, dopo il deal del 2006 con la grandiosa Peaceville Records, i The Provenance hanno cambiato completamente veste ed il loro sound è andato ad attingere da alcuni dei propri compagni di scuderia, tra i più audaci della scena metal attuale. Possiamo dunque trovare qualcosa di Opeth, Madder Mortem e Novembre, ma quanto proposto è talmente personale da non necessitare di alcun paragone. Il growl, un tempo colonna portante del sound, è scomparso lasciando così all'ammaliante ugola della tastierista Emma Hellström (scordatevi però lo stereotipo della cantante lirica tutta acuti e gorgheggi o quello della languida svenevolezza delle colleghe non ancorate alla tecnica classica), vera e propria modulatrice di tutte le linee melodiche, il compito di ricoprire la vasta gamma di linee vocali, coadiuvata dal chitarrista Tobias Martinsson (un tempo eccellente sia nei growl che nelle teatrali clean vocals, ora meno incisivo e quasi freddo) soprattutto per quanto concerne le backing vocals, creando un effetto melodico sicuramente accattivante ma anche leggermente inappagante rispetto allo splendore a cui eravamo stati abituati in passato. Il songwriting è stato leggermente semplificato, a favore di una forma-canzone compatta e dall'impatto più diretto. Le chitarre sono più "impiastricciate" e meno taglienti rispetto ad un tempo, più propense agli a accordi che ai riff, ma non hanno perso la loro caratura psichedelica ma allo stesso tempo estrema (il death è sempre il punto di partenza). Abbandonando completamente le influenze dei Jethro Tull (niente più flauto ed organo hammond) e relegando le tastiere ad un semplice ruolo di sottofondo (ma quando devono farsi sentire lo fanno con lo stesso effetto straniante ed apocalittico di un tempo) e rendendo il tutto più scarno ma al contempo cerebrale ed intimo, i nostri hanno registrato l'album più personale ma anche più ostico della loro carriera.

Tra gli episodi migliori vale la pena citare la nervosa ed intensa "At the barricades", la martellante "Thanks to you" (sottolineata dal preciso drumming di Joel Lindell), la straniante, psichedelica e quasi sinfonica "Second and last but not always", l'apocalittica "Raveling masses", la liquida e pacata "Deadened" e la disturbata "Settle soon", tutte canzoni consolidate dalle superbe capacità interpretative della Hellström. Forse l'unico evidente punto debole di quest'album, per quanto concerne le tracce non citate, sta proprio nel fatto di avere puntato anche troppo sui ritornelli, che, non essendo (fortunatamente) di facile presa come quelli di alcuni rinomati colleghi, rischiano di scadere nel prolisso o per lo meno di annoiare gli ascoltatori meno pazienti e quelli ancora legati alle atmosfere del passato. A dire la verità, ad un primo ascolto nessuna traccia in particolare mi aveva colpito nel segno; tuttavia, non essendo un disco di facile assimilazione, "Red flags" richiede molteplici ed accurati ascolti, non può essere di certo liquidato con un approccio minimale. A qualche mese dalla sua uscita, sono così costretto ad affermare che questo è l'ennesimo bel disco del quintetto svedese (anche se non è un capolavoro come i precedenti) che denota la presenza di un'ispirazione ancora effervescente, distante anni luce da qualsiasi trovata commerciale, da qualsiasi ondata stilistica e trend imperanti, colmo delle solite atmosfere oscure e claustrofibiche, di testi nichilisti pieni di immagini e metafore inerenti alla società occidentale, fatto di emozioni intime filtrate attraverso un sound ammodernato e più personale ma contraddistinte dalla prestazione impeccabile e dalla tecnica sopraffina di ogni singolo componente.

Se per una volta ci si dimenticasse del solito pregiudizio "voce femminile = gothic metal pacchiano" forse anche i The Provenance sarebbero premiati con i giusti meriti, non soltanto dal sottoscritto e pochi altri (tra le riviste specializzate solo Grind Zone a dedicato loro un po' di spazio). Ma il solo fatto che un'etichetta storica come la Peaceville abbia deciso di abbracciare la loro causa è già un gran bel passo in avanti. L'ascolto è consigliato a tutti coloro che non vivono di paraocchi, ma soprattutto ai fan del metal più emozionale.

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