Già essere qui, nel 2005, a recensire un nuovo disco dei Rolling Stones, è una bella libidine. La è per chi ama il rock e la sua storia, la è per chi ama la potenza e i miagolii della voce di Jagger, la è per chi ama i riff taglienti della chitarra di Richards, e per chi ama il suono della batteria di Watts sempre, lì a un passo dalla dimenticanza, dall’assenza. Ed eccoli qui che tornano, periodicamente, a farci capire che il tempo è sostanzialmente una finzione. E ce lo dicono col disco di sempre, con la copertina orrenda e il contenuto divino. Sì… : perché gli Stones fanno parte della musica classica del secondo novecento, e vi invito a diffidare di quelli che lo negano.
Ma veniamo al disco in sé, in concreto. Il parallelismo, se volete azzardato, è con “Pezzi” di Francesco De Gregori. Entrambi i dischi non sono propriamente capolavori di composizione (i relativi protagonisti si sono sforzati abbastanza poco), sono carenti –volutamente- di post produzione, suonano “sporchi”, non troppo rifiniti, entrambi con un’aria da “buona la prima” che non si sentiva da tanti, tanti anni. Alcune canzoni, qua come là, sono molto buone, altre sono più modeste ma suonando ugualmente benissimo. La valutazione di dischi di questo tipo va fatta – scusate il latino, e mi addosso tutti gli insulti che seguiranno…- hic et nunc, non in assoluto, come se fossimo nei settanta o addirittura prima.
“Wild Horses”, come “Alice” sono momenti irripetibili, storicamente prima che musicalmente. Oggi dobbiamo valutare grandissimi artisti che invece che ripiegare su una comodissima isoletta a prendere il sole e vivere di rendita, hanno deciso di continuare a mettersi in gioco, affrontando sia le fatiche sia del palco che dello studio, e, soprattutto, qelle olimpiche della carta bianca e della penna per scriverci sopra qualcosa. E lo devono fare senza più la “fame” dei vent’anni.
È in quest’ottica che dischi come quelli citati, o anche come “Devils And Dust” del Boss possono essere tranquillamente considerati capolavori.
Scendendo ancora un po’, ma la disamina del disco pezzo per pezzo è cosa soggettivissima, spesso inutile e sempre noiosa…, posso dirvi quali sono per me i momenti migliori di questo “Bigger Bang”. Sicuramente il singolo, una classica ballata di Jagger come ce ne sono tante anche nei suoi dischi solisti, ma con l’innesto di un ritornello ultrastones, in falsetto, degno dei momenti migliori. Così come la ballata di Richards, “This Place Is Empty”, è obiettivamente bellissima (con formazione inedita: Jagger alla slide guitar e alle seconde voci, e Keith praticamente a tutto il resto esclusa la batteria…). Poi apprezzabilissima la verve di “Let Me Down Slow” e la vis polemica di “Sweet Neocon”, certo però non il miglior brano dell’album.
Mi fermo qui: il resto è puro Rolling Stones, imperdibile per chi ama il rock, e dunque gli Stones, o gli Stones, e dunque il rock. Da notarsi, non senza malinconia, che questi quattro nonnetti, anche quando si sforzano poco, sono infinitamente migliori (da ogni punto di vista: compositivo, interpretativo, armonico, ecc…) di tutti i giovani emuli che, ahimé, si trovano ad avere. Jovanotti e Oasis, forse, tra vent’anni capiranno qualcosa di De Gregori e degli Stones, riascoltando i dischi di quest’anno, ma allora, per loro, sarà certamente troppo tardi.
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