Quando è stato pubblicato "From the Lions Mouth" avevo già abbandonato gli studi. Terminato il liceo mi ero iscritto a Matematica, perché da ragazzo avevo letto troppo Asimov e volevo diventare uno psicostorico.

La "Teoria dei giochi" e il nome di Nash non erano più un tabù nelle università italiane, così avevo maturato la convinzione che con l'utilizzo di metodi e formule matematiche si potesse arrivare ad un qualcosa di non dissimile alla Psicostoria. Ero affascinato dai mondi raccontati da Asimov, dall'evoluzione della società e del genere umano e da come il matematico, nato dalla penna dello scrittore, Hari Seldon era arrivato a studiarla e sublimarla, facendone una vera e propria scienza. Volevo essere uno psicostorico. Uno psicostorico e un torcitore. Le cose però non andarono come speravo e lasciai l'università e buona parte dei miei sogni di ragazzo senza troppi rimpianti. Quelli sono venuti dopo.

Studiava invece Architettura, Irene, quando l'ho conosciuta. Ora anche lei aveva lasciato gli studi e lavorava come commessa in un negozio di abbigliamento in centro. Il negozio era di una sua vecchia zia che, oltre al lavoro, le aveva anche offerto ospitalità, un posto dove stare, quando Irene aveva lasciato la Calabria. La zia, che io ricordi, era una persona simpatica e in verità non vedeva l'ora di passare il negozio in gestione alla nipote e ritirarsi a vivere nella sua casa al mare. Irene, oltre la zia e due misteriosi fratelli che abitavano a Pavia e di cui non sapevo altro, non aveva famiglia. Dalla Calabria era scappata, e cercava di scappare anche dal suo passato.

Irene era molto carina, ma i suoi occhi erano tristi e sembravano aver visto l'inferno. Aveva bellissimi lunghi capelli castani che le arrivavano oltre le spalle, ricci, e dieci anni più del sottoscritto. Conoscevo Irene già da un po', ma avevamo un rapporto abbastanza formale, e poi io, tanto per cambiare, ero certo di non interessarle. Non interessavo a nessuno. Una sera la incontrai che ero a bere una birra o due da solo al solito locale. Andammo avanti fino al mattino, io a bere, lei a parlare, così cominciammo a frequentarci.

Irene citava Ian Curtis e Baudelaire a memoria, e conosceva tantissima musica. A casa aveva centinaia di Lp, molti dei quali di band ed artisti che non avevo mai ascoltato o solo sentito nominare, e di buona parte, oggi, neanche ricordo il nome. Ne sapeva di new wave, la ragazza: i suoi ascolti andavano dai Joy Division - la sua band preferita, naturalmente - ai Birthday Party, dai Suicide ai Tuxedomoon, ai Sound di Adrian Borland e "Jeopardy", che era stata lei a farmi conoscere e che subito mi avevano colpito. Quando è uscito "From the Lions Mouth" gliene regalai una copia. Io le dicevo che avevano persino una marcia in più dei Joy Division, che certo ricordavano nelle sonorità - ma trovo i Sound suonassero, non me ne voglia il buon vecchio Sumner, meglio di Curtis e compagni. Lei, ridendo, era solita sfilarsi uno stivale e tirarmelo dietro la testa. Da questo punto di vista, sì, mi ricordava molto mia madre. Irene rideva poco. Sorrideva, certo, ed aveva un sorriso molto dolce, ma non ci voleva un genio o una particolare sensibilità per capire che qualcosa non funzionava, che era un sorridere stanco, quasi pesante. Non rideva, ma le piaceva parlare: diceva che io la mettevo a suo agio ed era soprattutto per questo che le piaceva passare del tempo con me. Ma, oltre una buona amicizia, tra me e lei non c'è mai stato nulla. Ero troppo timido per farmi avanti e dei dieci anni di differenza pensavo che mi avrebbe rifiutato, o che in ogni caso sarebbe finita male. Sapere che sarebbe finita era abbastanza per farmi rinunciare. Comunque neanche ne ero venuto a capo quando, una sera, la riaccompagnai a casa e mi disse in lacrime che preferiva fare a meno di continuare a vedermi. Sapeva di piacermi e i dieci anni di differenza la spaventavano. Mi adeguai, perché non potevo fare altrimenti e perché in qualche modo avevo sempre saputo sarebbe andata a finire così: continuammo a sentirci per un po', di tanto in tanto, ma poi tutto finì. Non ci ho sofferto poi molto e di Irene, quando ho conosciuto Chiara, mi sono quasi dimenticato.

Qualche anno fa ho saputo della tragica fine di Adrian Borland. Credo anche lui abbia giocato una partita contro i suoi fantasmi per buona parte della sua vita. Non lo so se ha perso e poco mi importa, ma ha deciso di farla finita. Credo che dischi come "Jeopardy" e, soprattutto, "From the Lions Mouth", per quanto forse sottovalutati da pubblico e critica, siano valido testamento e testimonianza delle sue capacità compositive e della sua sensibilità artistica. Irene non l'ho più vista. Ogni volta che ascolto "Silent Air" penso che forse le cose potevano andare diversamente. Qualche volta passavo davanti al negozio dove lavorava e, senza che lei mi vedesse, la guardavo per qualche minuto.

Un giorno il negozio era chiuso, aveva chiuso. Lei non abitava più lì. Non ho più visto Irene.

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