Un piccolo tesoro mai trovato in fondo al mare, una goccia in un oceano, un tassello in un puzzle. Un seme mai germogliato questo gruppo, The Trip, che, da quel che si dice e da quel che mi è sovvenuto alla vista e all'udito, imperversò all'inizio dei settanta sulla scena progressive italiana. Perchè dico che è un seme mai germogliato? Perchè è un gruppo che non ha fatto la storia e non ha cambiato nulla. Ma di questo non ce ne frega niente, o almeno spero. Perchè dico che è un tassello in un puzzle? Perchè questo gruppetto di italiani con i maroni pieni del solito cantautorato (con tutto il rispetto dovuto agli immortali, e sapete a chi faccio riferimento, lo spero) si convinsero (un po' fuori tempo) che c'era da provare qualcosa di nuovo, di più sperimentale: progressive, beat, psichedelia. Erano queste le chiavi primarie. E questo lavoro è un tassello di quell'immenso puzzle avanguardistico italiano che mi affascina in questi recenti tempi. Ora, dopo la solita pappardella introduttiva sullla collocazione spazio-temporale del gruppo in questione, (ho fatto di tutto per non annoiarvi, ci sarò riuscito?) andiamo ad esaminare il disco in questione.

"The Trip", primo omonimo album della band anglo-italiana nata dall'incontro tra Riki Maiocchi e Ritchie Blackmore dei Deep Purple, e portata al successo dal tastierista Joe Vescovi, è un lavoro che, nonostante abbia tutti i difetti che un gruppo agli esordi possa avere, ci regala dei momenti musicali davvero entusiasmanti e  straordinari.

Già dal "Prologo", prima traccia del disco, uno qualsiasi pesterebbe a sangue i musicisti, per le melodie forse troppo instabili e traballanti, ma poi ti convinci che questa qua è roba sudata, fatta nel metodo più ortodosso e senza essere toccata. Roba autentica, se pur difettosa. Ma "Incubi" ci introduce un acre blues con pennellate rock; qualcosa che ti delizia le orecchie, che ti riempie lo stomaco. L'ingegno c'è e si vede in alcuni effetti che ti drizzano anche i peli dell' uccello. "Visioni dell' aldilà" ci enfatizza con armonie curate e virtuosismi da paura. Una sinfonia d'avanguardia, ma d'altra parte sembra di sentire musica ascoltata quattro o cinque anni prima in America e in Inghilterra; qualcosa che probabilmente in Italia era nuovo, ma che in Inghilterra sapeva già di minestra riscaldata; è forse per questo che al grande passo di farsi vedere anche all'estero, la band di Vescovi e Andersen fu colta con le brache calate.

In "Riflessioni", la psichedelia e il blues si fanno da parte per lasciar spazio a strumentalismi che strizzano l'occhio al jazz e alla fusion; anche qui il virtuosismo non è da meno; se da una parte c'è una linea melodica invidiabile e ben curata, da un'altra ci sono inserti vocali da dimenticare e forse poco incisivi; diciamo che Andersen non era un portento e ancora doveva raggiungere il suo massimo valore tecnico, forse mai espresso del tutto (chissà se lo aveva?). Chiude "Una pietra colorata", dagli accenti più pop e meno sofisticati.

Ci si arrabbia per qualcosa che manca in un così perfetto mosaico strumentale, ma si rimane estasiati dalle incantevoli visioni che ci offre il lavoro dei Trip: melodie ammiccanti, atmosfere paradisiache e celestiali, tonalità accese e vive.

"Impression, soleil levant"

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