‘Songs the Lords Taught Me’ – Per una piccola educazione sentimentale di questo vostro umile scrivano. 3a Puntata: ‘I Was a Punk Before You Were a Punk!’…e dillo a me, dillo! Eddilloooo! (ad un giovinetto per il quale Questi Alieni dell’Arizona furono importanti tanto quanto i Clash)
Se un giorno dovessi prendere il potere (sommessamente, vi dico che sarà sempre meglio il mio di totalitarismo, rispetto ad altri, fidatevi), questa sarebbe la prima azione esecutiva che metterei in atto: rendere obbligatorio a tutto il popolo l’ascolto dei Tubes.
Vabbè, ma dove siamo finiti? Neanche al più strampalato dei Dittatori dello Stato Libero di Bananas o a un Eliogabalo (perdonami, grande Antonin Artaud, è ad uso della narrazione, questa) issatosi a guida del Sito Meno Fiko dell’Internette (non sono ammesse illazioni su Scaruffi o su Ondarock) verrebbe mai in mente una follia del genere.
E invece sì.
Si creerebbe dunque un canale radio ad hoc, sulla falsariga di quanto si faceva durante la Guerra Fredda nell’URSS in concomitanza delle morti non ancora ufficialmente annunciate dei Presidenti del PCUS, con il compito di filo diffondere di continuo e senza soste la musica di questi che purtroppo pochi oltre all’Affezionato Vostro sono disposti a riconoscere tra i Massimi Geni ab rock-urbe (Memphis? New Orleans? Chicago? o direttamente in Africa?) còndita.
Ma siccome nella follia risiede il seme più puro della verità, adesso provo ad argomentare.
(un po’ di storia)
I Tubes, da Phoenix, Arizona (sarà il sole che picchia in testa così prepotente a rendere a tal punto eccentrici i musicisti che arrivano da quelle lande infuocate? Per ulteriori conferme, citofonare: Meat Puppets, Ciò detto, il posto ideale per fare ‘comune in musica’ non potè che essere poi San Francisco) erano un’accolita di amici-geniacci del pentagramma, di quelli – tutti, nessuno escluso - che dal proprio strumento cavavano fuori il più sofisticato dei virtuosismi. Ma non di quelle robe da pseudo-intellettualoidi prog-fusion (seppur anche in questo ambito gente come Bill Spooner, Michael Cotten, Vince Welnick e la sezione ritmica propulsa a mille ontani e mille tempi dispari dalla formidabile coppia Rick Anderson-Praire Prince potevano piegare, incartare e mettersi in saccoccia praticamente tutto il coevo scenario prog-et-similia).
Ma qui si parla anche e soprattutto di un ‘complesso’ che, zappianamente, fa rock in ogni sua declinazione (hard, glam, pop, senza tralasciare debiti con robe ‘nere-nerissime’ come l’errebì virato alla loro maniera e pure la funky-disco); per di più – che dettaglio insignificante, eh? - scrivendo grandi, grandissime, enormi ‘canzoni’. Il tutto con un’attitudine che mette insieme provocazione, goliardia da serissima presa per i fondelli che non può essere catalogata altrimenti che alla voce (pre)-punk. Gli Stooges senza deboscia estrema che si fanno Mothers of Invention e che perdipiù sanno pure suonare…
Poco, eh? Sicuramente roba da far girare la testa anche a un vecchio marpione della sala d’incisione come Al Kooper, colui che li ebbe agli – ehm… - ‘ordini’ per la produzione del primo omonimo album, oppure nel secondo disco capaci di una fantasmagoria di canzoni una diversa dall’altra per genere e specie, con un unico fil rouge: che sono tutte e nove ‘grandi’ canzoni (sono nove per la scaletta, ma alcune di esse ne contengono al loro interno almeno tre-quattro insieme. Ci sono gruppi che nell’intera carriera hanno avuto la metà delle idee esposte dai Tubes in un solo loro brano).
(un po’ di autobiografia)
1980: il punk e la new wave hanno già stravolto la mia vita irrimediabilmente da circa una quindicina di mesi e dunque niente può più essere lo stesso. Ma…c’è un ma (c’è sempre un ‘ma’): la curiosità sotto forma del dispettoso diavoletto nell’orecchio sinistro ti ha sussurrato lascivamente: ‘non fare come quelli che vogliono la tabula rasa delle musiche ‘da vecchi’, ‘no more Elvis, Beatles and Rolling Stones in 1977…’, o meglio: cerca di distinguere il grano dal loglio, potresti avere delle belle sorprese’. E pertanto l’occasione di vedere dal vivo questi strani signori che il Cuggino Grande ti aveva magnificato è imperdibile anche per me, sciocco ed acritico pasdaran della ‘nuova onda’ color antracite (e pazienza se nel giro di poco tempo diventerà presto nero-tenebra)
Beh, che dire: non fu uno spettacolo. Fu una visione, un’apparizione, un’epifania, una roba schiacciasassi mai vista prima.
I Tubes si facevano (a mia ovvia insaputa) precedere da fama di oltraggiosi ai limiti della legge, live-show pirotecnici con ballerine semi-nude a volteggiare sul palco, scenografie che amplificavano all’inverosimile – irridendolo, savasandir – l’imperante glam, costumi bondage e movenze da film (neanche tanto) soft-porno con duetti tra la bellissima Re Styles (capace di farti innamorare solo con le sue dita affusolate e perfettamente smaltate che squarciano la copertina del primo album) e il cantante Fee Waybill che rendono roba da educande le pratiche lascive del ‘cochon’ Gainsbourg alle prese con la pseudo-ninfetta Birkin.
Quello stesso Waybill che barcolla su tacchi da 40 cm. col nome di un Supereroe, Quay Lewd, chiara allusione alla pratica delle rockstar di strafarsi di Quaalude. Insomma, se mai c’è stato un rock’n’roll circus, se mai spettacolo e musica devono saper andare a braccetto, quello dei Tubes di metà-fine Settanta, nella materia, fu il massimo dei massimi. Racconta lucidamente Bill Spooner : ‘Facevamo tour da 150 date tutte sold-out e perdevamo denaro per tutta la gente che portavamo in giro, tutti gli oggetti di scena e i camion pieni di merda extra. Dovete ricordare: erano gli anni '70 e noi eravamo all'avanguardia quanto a comportamento oltraggioso sul palco. Oggi sarebbe vietato ai minori.”.
Dunque, si perdevano soldi, i conti erano - incredibile ma vero - sempre in profondo rosso. Pertanto, i Tubes che vidi io si presentarono al proscenio vestiti da impiegati di Wall Street, completo giacca e cravatta come mondo della finanza impone perché alla fine si rendono conto che ‘è tutto sbagliato, tutto da rifare’, perciò ecco il ‘Principio del Completamento Alla Rovescia’, (titolo – tradotto grossolanamente - del disco che aprirà loro le porte dell’AOR). Come a dire: lo show-business stritola (ha stritolato) anche noi stessi, non ci resta che fare ‘i conti’ con la dura realtà. Ma siccome, come lo scorpione di Esopo, è nella loro natura la trasgressione, dopo pochi minuti dall’ingresso, si strappano quegli abiti impiegatizi di dosso e giù a mostrare mutande con attributi di plastica di dimensioni, diciamo così, non proprio indifferenti. E naturalmente fu delirio, così lontani eppur così vicini in spirito ai Cramps che mi avevano già sconvolto la vita pochi mesi prima. Un solco indelebile nella mente. Chiederai: ma se avessi visto i Boston con le loro astronavi invece dei Tubes, diresti le stesse cose? Uhm, senza offesa per nessuno, direi proprio di no.
(ma veniamo a noi…)
Per la critica paludata, ‘Now’, ‘il difficile terzo album’ (cit.), è un mezzo pastrocchio, indeciso e infine irrisolto. E allora com’è che vi parlo di questo disco?
Primo: perché il fondamentale ‘What Do You Want from…Live?’ è già recensito (e poi detto tra noi, nessun disco dal vivo potrebbe mai eguagliare la magia trascinante, epica, surreale di un loro spettacolo)
Secondo: perché ho un affetto specialissimo per tutti quei dischi ‘famolo strano’, quelli che, ai limiti dell’autolesionismo, rompono clichè consolidati, ovvero, quelli che fanno quasi tabula rasa e segnano un punto e a capo. Tra il prima delle stramberie e il dopo, con Todd Rundgren (‘Remote Control’) che al solito va giù pesante con le sue mani ingombranti e il successivo-definitivo confluire (ah, quei conti in rosso, etc.) nello stardom. Sempre mantenendo una classe superiore.
Terzo: perché a tal punto lo amo, ‘Now’, di quegli amori totalmente irrazionali, che ve lo vorrei raccontare alla maniera di una volta, quando i dischi si recensivano brano a brano, sì, proprio con l’aborrito track-by-track. Di più, nota per nota perché nulla venga (tra)lasciato al caso. E se no, che razza di Dittatore sarei, se devo compiacere il popolo?
Ma siccome sono in fondo un Tiranno Illuminato, vi dirò che questo disco non si spiega, si ama. Come per i filosofi Eleati ‘non c’è divenire, solo l’essere’, per ‘Now’ dei Tubes c’è solo l’ascolto che può spiegarlo.
Sì, certo: minore, come può essere il tentativo di diventare arty-jazz per dei cazzoni senza causa, di diventare gli Steely Dan di San Francisco. Ecco, sì: ‘Steely Dan di San Francisco’ può essere una buona definizione per questi Tubes del 1977, a patto che ci si metta a fianco l’aggettivo ‘incontrollabili’. Come sempre, peraltro (quella storia della natura dello scorpione, già detta, vero? Per dirne una: l’A&M finisce ai matti perché il produttore ‘imposto’ John Anthony viene praticamente defenestrato da Spooner a metà registrazioni)
In ‘Now’ i Nostri Sublimati sparigliano dunque il mazzo, giocando a fare ‘gli autori’, se non proprio impegnati, quasi.
Quasi, eh.
Per metà disco circa, sebbene la copertina sia di un arancione vivido e con le nove (sì, è entrato in forze temporaneamente il percussionista ex-Santana Mingo Lewis) caricature dei componenti facciano pensare a tutt’altro, il mood si fa più ‘oscuro’, ‘fumoso’ come da titolo del brano d’apertura (‘Smoke - La vie en fumer‘: ‘se la vita è fumo, il mondo è il mio portacenere’), un up-tempo piano-rock letteralmente irresistibile in cui Waybill mostra tutto lo splendore del suo crooning baritonale. In (parecchio) disco il protagonista è il pianoforte classico di Welnick, quello del piano-rock appunto che rimanda agli Steely Dan-evo ‘Pretzel Logic’ (‘Hit Parade’) o, con tutte le cautele del caso, Elton John o Billy Joel. A latere, però, ecco i synths futuristici di Cotten che fischiano e disturbano intermittenti. Ancora più a latere, le chitarre di Spooner & Steen, che si inventano scenari a volte lambenti il country&western (‘Strung Out on Strings’) e l’errebì meno convenzionale (‘Golden Boy’, avreste mai pensato all’armonica a bocca in un pezzo dei Tubes?). Per tacer dell’idiosincrasia di certe cover (ma stupirsi con loro significa non averci mai capito niente: non avevano già ‘imbrattato’ di sconquassata follia il primo lato del loro esordio con quella versione da valzer delirante del classico brasileiro ‘Malagueña Salerosa’?): sotto a chi tocca, e dunque tocca a uno distantissimo eppur vicinissimo in spirito, tale Van Vliet, Don, di grado Capitano, del quale si trasfigura al quadrato la sua minorissima cantilena ‘My Head is My Only House Unless it Rains’, che appunto qui trasmuta in una soul ballad al ralenti, sospesa tra sognanti, acustici arpeggi. A cui fa coppia il Lee Hazelwood (avrete fatto caso: tutta gente ‘spostata’ dal lato giusto, il nostro lato preferito) qui in veste-Hoagy Carmichael tutto lustrini e jazz-swingante di ‘This Town’, una roba in cui Fee Waybill si sceglie come modello interpretativo niente meno che ‘Old Blue Eyes’ Frank Sinatra.
Sì, vabbè, ma…quella roba della natura dello scorpione? Calma, calma, c’è, ci mancherebbe, se no staremmo a parlare mica dei Tubes.
Perché come detto su, c’è quel ‘quasi’: dunque, le tirate strumentali prog-fusion tipo ‘God-Bird Change’ (scrive Mingo Lewis, te lo saresti mai aspettato?) che sembrano gli Yes a far comunella coi Blue Oyster Cult, ci dicono che il rock dei Tubes, per fortuna, come la natura, ‘non facit saltus’. Che ‘I’m Just a Mess’ e ‘Pound of Flesh’ sono classici rockettoni/acci tanto sporchi, obliqui e potentissimi nello svolgimento (ma quanto ‘popadelici’, nell’appeal!) che ci sarebbero potuti stare a pennello sui primi due dischi. Che ‘Cathy’s Clone’ è puro art-rock che preconizza certa new-wave spinta sul limitare della ricerca (i cafoni/cazzoni Tubes erano anche capaci di robe alla No New York!), con quel sax spiritato a firma di un tale Van Vliet, Don, che ricambia da par suo l’omaggio di cui sopra.
E poi, a chiudere il tutto QUELLA canzone. Quella che al primo ascolto mi sconquassò il cervello come ‘White Riot’ dei Clash, un momento prima ero una persona, dopo ne fui un’altra totalmente diversa.
Una suite prog-punk! Gli Steely Dan che diventano i Rolling Stones con Ian Stewart impazzito al piano come se dovesse suonare i Ramones. Ancora oggi, mai sentito nulla di simile in soli cinque minuti scarsi. Deliquio.
Perché sì, ricòrdatelo: ‘I Was a Punk Before You Were a Punk’
E allora, davvero: ma ‘che cosa vuoi (di più) dalla vita?’ Un Lukather?
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