Nel mondo mitologico delle convenzioni sociali, della repressione degli istinti, dei compromessi con se stessi, della rinuncia a se stessi; della comodità economica ad ogni costo, dell'anelito irresistibile alla Posizione Agiata: l'Olimpo sopra ogni felicità, il Valhalla degli eroi dell'Ambizione Sfrenata. In quel grande mondo antico - ormai sepolto da due decenni di battaglie petrolifere e veli pietosi vari - un piccolo eroe alternativo: David Gedge da Leeds. Reduce dalle imprese di George Best e Bizarro: trionfi di alti, altissimi muri di chitarre, di intricati labirinti bassistici e melodie memorabili, immediatamente coinvolgenti; capitoli fondamentali nel glorioso libro del post-punk britannico.

Nel millenovecentonovantuno Gedge vive la sua tragedia. Marinaio in balia delle burrascose acque della perdizione, dimenticato dagli dei, senza un porto amico, senza una Penelope, in preda ai suoi demoni: mostri marini, terrore supremo di ogni uomo di mare.

I mostri marini di Gedge sono diaboliche manifestazioni dei mali del suo tempo: donne di pietra, d'acciaio, donne sposate e traditrici, donne bugiarde e ingannatrici, meretrici: lo seducono e lo illudono, assumono le dolci forme dell'amore, ma non sono che miraggi. Traggono a sé Gedge con le luci di speranza dei loro fari, come un miserabile insetto, tra le acque sicure del loro porto, ma sono loro a succhiargli via la vita: You suck it all right out of me, canta l'eroe con la sua voce commossa, profonda, struggente. Disumane, vuote, subdole, sfacciatamente maligne, create da un disagio ben più grande di loro, figlie del male e della sofferenza. Non c'è speranza per Gedge. Il ragazzo nella foto di Corduroy è cresciuto in fretta, è un uomo e ora annega, si trascina tra le onde di amori malati, tradisce, si sente tradito, abbandona, è abbandonato, solo. I tanti you sono lontani e vani.

Seamonsters è il suono di questo mare maligno, notturno: una tempesta di distorsioni chitarristiche, di improvvise dissonanze, incursioni soniche - spiccano gli stacchi furiosi, interminabili di Lovenest, in chiusura di un refrain che ricorda la monotonia ossessiva di Ian Curtis - ballate elettriche sull'orlo della crisi di nervi, ballate acustiche turbate dai tuoni di una batteria sempre in primo piano, da un basso metallico, graffiante - sezione ritmica di grande esperienza, tanto pragmatica quanto efficacemente distruttiva - accelerazioni post-hardcore tra nebbie di feedback e muri di distorsioni innalzati dall'ottimo Solowka, che talvolta sovrastano il resto, senza tuttavia creare l'effetto pace dei sensi di certo shoegaze: perché ad affannarsi, sotto la schiuma, sotto le onde distorte di Dalliance, c'è il pulsare disperato di un uomo illuso e deluso, sedotto e abbandonato dal suo mostro marino, la donna sposata incapace di lasciarsi trascinare dalla passione, dalla vita. Traditrice seriale, schiava delle convenzioni della sua società, vittima di un matrimonio malato.

Nel mare di uno shoegaze depresso e impetuoso - un incrocio tra il lato oscuro dei Jesus and Mary Chain e il furore chiassoso dei Sonic Youth - il baritono di Gedge è un lugubre singhiozzare di abbandoni, un sussurrare estasiato di fugaci visioni amorose, un sussurrare affannoso, stanco, uno sgolarsi rabbioso e stonato: suadente, tenero nella sua limitatezza, ai suoi massimi livelli di espressività. Vero, umano, troppo umano.

La produzione di Albini è quella dell'incubo uterino: un lavoro secondo gli standard mediamente assordanti che qualche anno dopo caratterizzeranno In Utero. Una produzione curata per apparire poco curata, molto Shellac, un suono che dopo più di vent'anni pare non essere invecchiato di un giorno.

Il finale è secco, tragico: il mostro vaginale prevale, l'Octopussy avvolge Gedge con i suoi tentacoli di seduzione, ineluttabile. È l'ultima illusione e l'eroe, straziato, consapevolmente vi si abbandona. Qualcuno potrebbe gridare al lieto fine, potrebbe pensare che scegliere di illudersi sia una scelta. La lenta malinconia di Octopussy non lascia dubbi: illusioni. Annega nelle illusioni

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