Il mio ritorno in sede debaseriana coincide con l’avvento di questi quattro (dalla regia mi dicono tre, ora che la tastierista ha mollato gli ormeggi) figliuoli south-west londinesi. E già qua ci si potrebbe fermare. Poi li vedi su youtube in un’intervista e sono solo in due. Praticamente è come la canzoncina dell’alligalli. Un alligalli emo, visto il look. Orrore e raccapriccio.

Verrà ora da chiedersi cosa possa spingere un ascoltatore medio a dare una chance a questo loro album d’esordio, che così come il loro nome rimanda al numero 20, cioè più o meno la loro – e mia – età.

In una parola: la semplicità. In un panorama musicale dominato spesso dagli arrangiamenti maniacali e dalle orchestrazioni barocche, messi là a mascherare i difetti e le mancanze degli artisti stessi, questo disco è un gran bel sentire. Le voci dei due tipi, Romy e Oliver, sono come registrate attraverso le fessure dei muri, umide e clandestine. La sezione ritmica sta tutta in una drum machine, e il resto lo fanno le grandi pause, quei respiri atmosferici che rendono superflua una qualsivoglia descrizione. Non manca però ai nostri giovani britannici il gusto per la melodia, radicata nella loro tradizione musicale come non mai. È il caso di "Crystalised" così come pure di "Heart Skipped a Beat", mentre altri episodi come "Infinity" e "Basic Space" si fanno notare per preziose trovate chitarristiche naif ed estemporanee. Il pezzo migliore però rimane "Intro", prima traccia impeccabile: un attacco del genere, per rimanere in campo indie-pop-rock, lo ricordo solo in "Turn On The Bright Lights" degli Interpol (Untitled).

Lasciamo pure che i critici si trastullino a paragonarli ai Portishead e ai Radiohead. Questi sono gli XX-head, quattro sfigati del sudovest di Londra. E già qui, lo so, avrei potuto fermarmi.

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