1)

“Carnival song” è una nenia salterina di organetti da strada, tamburelli infantili, dissonanze tremolanti..

E' un numero felliniano, con Nino Rota che ha sulle spalle una scimmietta psichedelica.

Evoca magie itineranti vestendole di una malinconia senza tempo e regalando a noi, bimbi psichici, l'effetto carillon definitivo.

Eh si, per una volta comincio in media res, tuffandomi subito nella musica.

E comincio con una canzone cenerentola...come, fate conto, iniziare un discorso sull'album banana con “I'll be your mirror” e non con uno dei tanti carichi da undici.

Comincio in media res, perché da sempre volevo scrivere una recensione di questo disco. Sapeste quante volte mi son chiesto come cominciare senza cominciare mai.

E allora si, tuffiamoci...tuffiamoci pure...

2)

Ma perché proprio “Goodbye and hello”?

E' che ci sono dischi che son tuoi amici da sempre e son quelli che hai ascoltato a quindici anni e non hai smesso più.

Non hai smesso quando la gnu vuev imperava e solo gnu wuev avresti dovuto ascoltare.

Non hai smesso quando il rock ti aveva stufato e cercavi altre luci in luoghi inconsueti e bizzarri.

O quando, che so, ascoltavi solo Paolo Conte o Pinco Pallino, il new bastard folk o vattelapesca. E un buco per quei dischi (pezzettini del tuo cuore) lo trovavi sempre.

Ecco, son pochi quei dischi, che mica vale solo l'ascolto a quindici anni. Vale che non hai mai smesso. E allora si, son pochi. Pochi davvero.

Fatemi pensare, il primo dei Doors, il primo dei Velvet, “Hunky dory”, “Piper” dei Floyd

E questo “Goodbye and hello”, il mio primo Tim Buckley insieme a “Starsailor”.

“Starsailor” però, con la voce di Tim che aveva perso, quasi del tutto, il suo lato femmina e grugniva gutturale e virile nel caos, era forse un po' troppo per un ragazzino.

Era avanguardia assoluta e l'avanguardia, pur essendo di genere femminile, non è femmina e, soprattutto, non è ragazzina.

“Starsailor” è un capolavoro, ci mancherebbe. Ma, allora, la commozione, la sensibilità incerta e febbricitante e la fibrillazione emotiva stavano per me in quel ciao e in quell'arrivederci.

Del resto anche oggi la penso così.

3)

“Goodbye and hello” è uno di quei dischi che ti ricordi anche dove eri la prima volta che l'hai sentito, in questo caso il salotto di Orsetto, luogo dell'anima con folle moquette arancione e divani neri e con, appeso alle pareti, un enorme cerchio (nero anche lui) pieno di buchi.

Che in quei buchi si infilavano altri cerchi di metallo di diverse misure a comporre un infinito di possibilità..

E per noi, poveri peones che, nella normalità, ci aggiravamo in stanze ammobiliate “Mercatone uno”, quei cerchi erano una specie di rivelazione mistica o il cristallizzarsi di un mondo che non pensavamo esistesse.

Poi anche Pascià, l'enorme terranova faceva il suo effetto. Per non dire dei due bagni (due bagni!!!)...

Ma era soprattutto la sorella di Orsetto, dotata di seni enormi, biondi capelli e caldi occhi azzurri a conquistare i cuori. Non ci cagava molto in verità, però, se ascoltavamo Tim Buckley, magari si fermava a chiacchierare un pochetto con noi.

E così, un giorno, eccitato dalla sua presenza, dissi un'enorme cagata.

Dissi, sapendo bene che stavo per avventurami in un discorso senza via di uscita, che le canzoni di “Goodbye and hello” avevano qualcosa di mistico.

Per fortuna ci pensò Loris, un favoloso soggetto che quel giorno era li quasi per caso, a disingarbugliarmi dall'assai poco convinto sguardo azzurro della fanciulla e da quello di tutti gli altri.

“Chi sarebbe il mistico?” chiese improvvisamente...

“Sto tipo che canta”

“Ah”

“Che poi non ho detto che è un mistico, ho detto che le sue canzoni hanno qualcosa di mistico”

“Se hanno qualcosa di mistico è mistico pure lui”

E ci pensò su un attimo...

“Un mistico...”

“Lo sai chi è un mistico, vero?”

“Si, si, un mistico...” (brevissima pausa) “un rottinculo!!” (altra pausa, appena più lunga) “del resto la voce da frocio ce l'ha”...

Ci mettemmo a ridere come dei pazzi e Loris con la sua favolosa e incredibile figura di merda mi salvò da quella che stavo per fare io.

Figura di merda, oh si...la sua non era una battuta...mica è obbligatorio a quindici anni sapere che significa mistico...

Il racconto è grossolano, ma serve a mostrare che non eravamo che dei ragazzini, ovvero caos ormonale senza arte ne parte, ma con una possibilità in più grazie alla musica.

In fondo è un miracolo che tutta quella poesia sia arrivata a toccarci.

Quasi come vedere dei peones seduti nel salotto di Orsetto a guardare quei cerchi

4)

Tornando al disco, ero talmente preso che per la prima volta mi misi a tradurre i testi.

Ah, era necessario. Che se su Morrison, Bowie, Reed qualcosa trovavi, che se Hammill lo traduceva il mio amico Marco, con Tim mi toccava far da solo.

Conservo ancora un quadernino con i miei goffi tentativi di afferrare la magia e la malinconia di quelle parole.

Ah, non è che ci capissi molto, ma mi tenevo strette le strade cremisi di vino, le magiche terre che non raggiungono le nostre spiagge, e quell'ovunque c'è pioggia, ovunque c'è paura...

Certo non potevo gareggiare con la grande poesia di Hammill, ma, nell'attesa di capir meglio, quelle pagliuzze/scintille di sensibilità blues mi bastavano...

5)

“Goodbye and hello” sta in mezzo a un primo album piuttosto acerbo e i successivi lavori di straordinaria libertà espressiva

Il nostro ricciuto folletto si era abbeverato alla fonte folk/rock di Fred Neik e Tim Hardin, gente che sapeva creare dal nulla istanti di magia, piccoli esili miracoli folk...

Esili si, ma come agganciati ad una stella..

Anche il ricciuto folletto aveva questo dono e dopo un breve apprendistato quegli istanti imparò a catturarli anche lui. Erano acquerelli, melodie da due soldi, giochi di specchi, frammenti di verità blues.

Ma ben presto fu in grado di fare ben di più e il nuovo dono fu quello di navigare negli istanti, quelli che prima si limitava a catturare.

In “Goodbye and hello” non si naviga, se non ogni tanto e appena appena.

Che “Goodbye and hello” è ancora un album di canzoni.

Che canzoni, però!!! Fate conto il Picasso blu e rosa rispetto alle signorine d'Avignone.

6)

Ma veniamo ai carichi da undici...

“Pleasent street”, tutta eleganza d'arrangiamento, mostra sin da subito qualcosa di stonato e come fuori giri.

Soffre, e al tempo stesso gode, di una sorta di iper produzione (o meravigliosa incongruità) che come un venticello la spinge senza fatica nell'altrove psichedelico.

Divisa tra regressione malinconica (leggasi dipendenza) e rabbia, con quella voce che passa dall'una all'altra con una naturalezza che ha del prodigioso.

Con il down più down di sempre e l'up di una voce così acuta e stridente da riuscire a sovrastare, insieme a chissà quali diavolerie da studio, il sibilo di una chitarra acidisssima e sinistra

7)

“Hallucinatios” ha una delicatezza metà avantgarde, metà visione trascendente... e un andamento da gioco di specchi, nebbia bianca su strada bianca....

Libera da ogni idea di melodia tradizionale, è tutta rifrangenze infinitesimali, tintinnii, bagliori...

Il testo, forse il più riuscito tra quelli dell'amico Larry Beckett, evoca una figura femminile che sfugge continuamente.

8)

“Phantasmagoria in two” ha il pallido incanto di una infantile richiesta d'amore.

E infantile è la melodia.

Crea, con un'illusione quasi da lanterna magica, un mondo dove tutto è dolce, tremolante e incerto.

La voce sembra quasi piangere e, insieme, a un passo dalla felicità.

Ma quel passo sembra impossibile e tutti i se della canzone rimangono se.

Felice/infelice, ha “l'espressione serena che può sembrar quasi triste” di certi eroi da libro d'infanzia (la mia infanzia)...

Felice/infelice, più infelice però...

9)

“Carnival song”, “Pleasent street”,” Hallucinations”, “Phantasmagoria in two” sono tra le mie canzoni preferite di sempre (e pezzettini del mio cuore).

Hanno una qualità luminosa pressoché inspiegabile che assomiglia a una fantasmagoria gentile. E, forse, aldilà del fatto che quel giorno volevo fare il figo, era questo che volevo dire alla sorella di Orsetto.

E la voce poi...nella favolosa polarità ying/yang del canto di Tim Buckley qui abbiamo il lato femmineo, il colore più che il disegno.

Tanti tubettini di tempere tenui spremuti fino in fondo.

E, forse, e certo senza rendersene conto, era questo che quel giorno voleva dire Loris con quella scemenza sulla voce da frocio.

Forse...

10)

Ma “Goodbye and hello” non è solo quelle quattro canzoni.

Sentite qua:

“La chitarra di Tim tuonò. Il ritmo era feroce, urgente e molto più intenso di qualsiasi cosa avessi sentito prima. La sua voce salì in aria con una forza, grazia e potenza assolutamente nuove. Tutto era assertivo, libero, piena di pathos, unità, emozione trascendente”

Sono parole di Lee Underwood, chitarrista e fraterno amico di Tim Buckley

E si riferiscono a “I never asked to be your mountain”, furioso patchwork tribale dove, tra corde spezzate di chitarra, percussioni furiose e un vibrafono magicamente fuori posto, va in scena, davvero come meglio non si potrebbe, la lotta tra il caos dei sentimenti e il desiderio di libertà.

Il risultato lascia senza fiato e si, quella volta la chitarra di Tim tuonò. Oh si si, favoloso preludio di molte cose che verranno poi, tuonò.

Che qui non c'è più folk, né rock, né soul, né blues....e quel che c'è davvero non lo so dire...

11)

Nel 1991, un ancora sconosciuto Jeff Buckley partecipa a un concerto tributo in onore del padre.

Inizialmente non voleva farlo, ma alla fine accetta a patto che il suo nome non venga messo in cartellone.

Sale sul palco due volte. La prima per cantare “I never ask to be your mountain”, una canzone che lo riguarda in prima persona. (Una cosetta da niente, solo sua padre che parlava a sua madre).

Più tardi esegue “Once I was”, altro capolavoro da “Goobye and hello”...una di quelle semplici ballate che, se ti chiami Buckley, puoi fare anche solo voce e chitarra...

Il pubblico ammutolisce...

Una corda si rompe...e Jeff finisce a cappella...con le ultime parole della canzone che dicono: “qualche volta mi domando se, anche solo per un attimo, ti ricorderai di me”.

Non so voi, ma io avrei voluto esserci...

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