"...E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un'unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell'ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo la sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell'arrivo della notte fonda che benedice la terra, i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa che toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo trovato, penso a Dean Moriarty." Jack Kerouac; "Sulla strada".

Rileggo per la terza volta la conclusione del libro-manifesto della Beat generation riascoltando di sottofondo quest'ultimo (capo)lavoro di Tom Waits e trovo la definitiva conferma della complementarità delle arti. La narrativa che, dipingendo in un grande unico affresco corale la vita degli emarginati, di coloro che sono stati abbandonati, che si sono persi dentro, degli incazzati cronici, raggiunge picchi poetici destabilizzanti per la nostra resistenza al pianto, alla commozione, alla partecipazione emotiva e si snoda sotto una metrica di sonorità improvvisate e paradossalmente meditatissime e ispirate. Ancora una volta mi innamoro della voce devastata dall'alcool e dalle droghe di Waits che modula toni diversi ma sempre capaci di arrivarti al cuore, come se fosse il tuo compagno di sbronza di sempre.

Era il 2006 quando questo triplo album fa il suo ingresso nei negozi di dischi. Più che una raccolta di inediti, "Orphans" è la concretizzazione di un percorso di recupero di piccole gemme registrate e mai pubblicate, di sperimentazioni passate e poi messe da parte e dimenticate per un po' di tempo (da qui il titolo dell'album) miste a canzoni appartenenti alle colonne sonore cui il cantautore aveva lavorato in passato e cover già apparse su diversi dischi-omaggio ad artisti apprezzati o che hanno ispirato il medesimo. Ognuno di questi tre dischi ha un proprio profilo ben distinto evitando quindi il rischio di realizzare una antologia confusionaria e disorganizzata nonché quello di scadere in una sorta di "elogio a sé stesso".

Il primo dei tre dischi è "Brawlers", termine che corrisponde al nostro "Schiamazzatori". Ad aprire il cd c'è "Lie to me", un pezzo stranissimo che mette le cose in chiaro: Waits attinge ancora a piene mani dalla tradizione americana del rockabilly e porta in primo piano le percussioni e l'armonica. "Lowdown" è uno delle tracce più orecchiabili e piacevoli del disco e ribadisce l'atmosfera casinista da bettola negli anni del proibizionismo. Complessivamente infatti, "Brawlers" sembra assumere a tratti le vesti di un disco antico inciso da un bluesman navigato, vissuto non oltre gli anni '50. I testi sono perlopiù storie di partenze che lasciano l'amaro in bocca ("2:19", caricata da una chitarra elettrica eccezionale), di chi si allontana dalle proprie radici e percepisce un'inquietudine insanabile (La cantilena da ubriaco della quinta canzone: "...and I'm leaving Missouri and I'm never coming home\ and I'm lost, and I'm lost in the Bottom of the world!") e di chi invece vuole cambiare pelle, modificare il proprio modo di essere "...I want to look in the mirror, see another face\...I wanna walk away". C'è da dire che in "Brawlers" c'è anche il Waits già sentito e per questo motivo che lungo l'ascolto si potrebbe sentire la necessità saltare alcune tracce come "Sea of love" e "Fish in the Jailhouse" ma di fronte a tanto ben di Dio mi sembra un aspetto abbastanza trascurabile anche perché a salvare la situazione arriva sul finale la splendida "Rains on me".

Giunge il turno di "Bawlers" dove Waits mostra quel lato di se che avevamo già avuto modo di scorgere nelle ballate al piano di "Alice" (2002), ossia il suo lato più dolce e malinconico. Inequivocabilmente si sente alla gola il vago sapore dei canti di preghiera dei neri nelle piantagioni, quei pianti che nascono dall'afflizione, dalla disperazione e che assumono i connotati di grida represse (non a caso il titolo significa "urlatori"). Nell'introduttiva "Bend down the branches" Waits sembra rivolgersi ad un immaginario interlocutore e discutere in modo breve e incisivo sulla caducità del genere umano che il tempo mette irreversibilmente in evidenza (" ..We're made for bending\ even beauty gets old...") in modo da spianare la strada al pianto con i violini di "Widow's grove" il sassofono di "Shiny things" e il lirismo di "Little man" e "It's over". Nel disco è inclusa anche "You can never hold back spring" presente nella colonna sonora di "La tigre e la neve" di Benigni. Personalmente il mio preferito fra i tre.

Mi sembra inutile tradurre il titolo del terzo album "Bastards" che conclude l'opera. Rispetto ai precedenti due, "Bastards" è quello più sperimentale, che si allontana maggiormente rispetto alle composizioni di Waits che siamo soliti ascoltare ed è anche il più composito. Si parte con lo spartito teatrale di "What keeps mankind alive" si prosegue poi con "Children's story" azzardata e un pochino patetica (Tom se ne accorge e se ne esce per il rotto della cuffia "...ok, there's your story\night-night...hihihihi!") che si muove sulla stessa falsariga di "first kiss", che però sa intrigare. I toni si incupiscono con "Heigh ho", la storia di una "rivolta servile" (tanto per intenderci...) di un gruppo di minatori stanchi di scavare tutto il giorno (...I't's off to work we go\ we keep on singing all day long...) e con la stranissima cover di "Dog door". Sfodera il suo lato intellettuale con la lettura di "Nirvana" di Kurt Weill e di "On the road" di Kerouac (appunto).

Complesso, emozionante, visionario, imprevedibile. Questo è ciò che mi viene in mente dopo aver concluso l'ascolto di "Orphans" e ogni volta che lo inserisco nel lettore mi rendo conto che proprio a questi aggettivi pensavo mentre selezionavo l'album da metter su. Per il resto non mi rimane che aspettare che Tom mi inviti per la prossima bevuta.

P.S.: Mi perdonerete di certo se colgo l'occasione per ringraziare pubblicamente The Punisher per avermi fatto riflettere sul fatto che l'arte ha strumenti e non forme.

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