Mi accorgo, con stupore, che nel sito non esiste alcuna recensione circa questo disco, l'esordio, datato 1974, di Toni Esposito, uno dei più importanti percussionisti italiani di tutti i tempi.
Napoli, negli anni '70, era un coacervo di suoni e mode. Nella ristretta cerchia di pochi anni esplosero gli Showmen, gli Osanna, i Napoli Centrale, il Balletto di Bronzo, Edoardo Bennato, Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Alan Sorrenti, Tullio De Piscopo e, appunto, Toni Esposito. Praticamente il meglio della nuova musica italiana risiedeva all'ombra del Vesuvio. Esposito ha un po' avuto la stessa sorte, almeno all'inizio, di Alan Sorrenti (dischi bellissimi ma di scarso successo commerciale, singolone spacca tutto e pubblico sdraiato) salvo non farsi risucchiare, come l'Alan suddetto, nel gorgo dell'easy-listening più bieco. Dopo il successo astronomico di "Kalimba de Luna" (1984) e una, modesta, ripetizione l'anno successivo ("As Tu As"), il ritorno ad una musica meno immediata è repentino, nonostante una lunga, forzatissima, pausa artistica negli anni Novanta.
L'esordio, prodotto da Battisti e Mogol (la Numero Uno), è fulminante. Circondandosi di mostri sacri o fenomeni di futura esplosione (al disco lavorano Robert Fix al sassofono; Mark Harris alle tastiere; Bennato, Edoardo, interviene qua e là e il produttore artistico è nientemeno che Paul Buckmaster, già arrangiatore di "Space Oddity" di Bowie e gran violoncellista con Kevin Ayers, mica robetta), mette in piedi un album clamoroso.
"Rosso napoletano", uscito anche con il titolo "Toni Esposito", è un lungo strumentale di 35 minuti che vede proprio nella title-track (una suite di poco più di 18 minuti) il proprio punto di forza. Esposito, con la propria vitalità e un ritmo incessante dal primo all'ultimo minuto, travolge l'ascoltatore con ritmi muniti di un'allegria contagiosissima in cui ogni cosa che puo' essere percossa lui la percuote, e così via con un concerto fatto di strumenti classici a cui si affiancano cucchiai, pentolacce, lamiere, timpani, piatti, legnetti, nacchere, tamburelli e, financo, padelle. Il tutto, per ricreare un suono mediterraneo e solare (nonchè, sotto sotto, popolare) che sappia raccontare, attraverso la musica e senza l'uso della parola (se si esclude un mini-dialogo di pochi secondi nell'intermezzo "Breakfast"), l'anima verista e sognante di Napoli, di quella Napoli di inizio anni '70.
Che Napoli sia raccontata attraverso i suoi tipi più rappresentativi lo si comprende leggendo i titoli dei brani: "Il venditore di elastici"; "L'uomo di plastica". O la scatenata "Danza dei bottoni".
"[...] il dico d’esordio di Toni traghettò il meglio di Bitches Brew di Miles Davis e del folklore partenopeo in un nuovo linguaggio tanto mistico e minimale quanto melodico e saporito: niente barocchismi di retaggio progressivo o solismi jazz, nessuna concessione alla durezza del rock" (John N. Martin)
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