Martedì 18 Gennaio 2011, sera, nebbia fitta su Milano, cielo grigio e freddo che si attacca alle ossa: Vienna e la sua Stephansplatz appaiono più vicine.

Datato 1980, l'inizio della fine, il quarto lavoro degli Ultravox lancia un chiaro segnale di svolta, il primo evidente fin dalla formazione scesa in campo mentre il secondo per essere notato necessita di almeno un ascolto: le corde vocali di Midge Ure, scozzese dal lontano futuro di meteora per via di uno spot della Swatch, prendono il posto di quelle di John Foxx e il timbro musicale del gruppo si allontana dal Post-Punk per avvicinarsi alla New Wave Elettronica che dominerà il decennio alle porte. La rivincita dei sintetizzatori sulle chitarre, acerrimi duellanti dell'epoca, aveva già avuto le proprie basi nel precedente "Systems Of Romance" e ora con l'avvento di Ure la trasformazione è completa, definitiva; non v'è traccia d'abbandono del decadentismo che ha fin dall'inizio caratterizzato la musica del gruppo ma c'è un forte messaggio di cambio di rotta per quel che riguarda la forma. Sono meno incazzati e più romantici, trasformazione dettata in parte dalle tendenze del momento e in parte da Billy Currie che ha voluto seguirle prolungando (grazie al cielo) la vita ad una band data per morta. Fin dalla copertina gli Ultravox ricordano che loro vivono in bianco e nero, Midge Ure, ultimo arrivato, fa già il Paul McCartney della situazione e guarda in direzione completamente opposta rispetto agli altri che paiono persi mentre per lui la direzione è chiara: là, Vienna, cuore dell'Europa centrale, Mitteleuropa, terra del Danubio, chiamatela come volete, quella nebbiosa insomma.

"Astradyne", strumentale ed incalzante synth introduttivo, suona già come biglietto da visita di chi ha cambiato abito e s'è fatto crescere i baffi. No, ero Foxx, ora sono Midge Ure, ricominciamo da capo. O quasi: proprio John Foxx infatti sarebbe stato contento della successiva "New Europeans", successone, fin troppo esplicito richiamo a ciò che gli Ultravox hanno prodotto fino a quel momento e che non poteva mancare, un addio o un arrivederci. Fin da qui è chiara la chiave della svolta, sintetizzatori che dirigono un rock atipico e cupo fatto da pianoforte, chitarre elettriche ed archi. Una bomba. Vienna. "Private Lives" e "Passing Stranges" suonano tenebrose come le vie strette e poco frequentate del centro al crepuscolo, la prima è più tranquilla e contenuta così come la seconda è più diretta e spettrale, mentre la successiva "Sleepwalk" lascia aperta la porta ad atmosfere più positive; singolo, la numero 5 suona più allegra, sostenuta e soprattutto dà un po' di respiro, una boccata d'aria anche se sempre e rigorosamente in bianco e nero. Boccata d'aria che conviene godersi perchè poi si arriva nei bassifondi più tetri che ci siano, nel Zentralfriedhof con il vento che ti taglia e i corvi che ti fissano, con una "Mr. X" glaciale come la solitudine. Alla fine c'è anche spazio per l'affermazione personale di Billy Currie alla viola. Pochi si soffermano sull'affresco minimale ma efficace che tracciano gli Ultravox nella successiva "Western Promise" ("Mystical East, all taxi-cabs, all ultra-neon, sign of the times, your Buddha Zen and Christian man, all minions to Messiah Pepsi can. This is my Western promise", piccole gocce di modernità dirette come proiettili) in quanto la numero 7 viene spesso vista come semplice intro al quadro più decedente che un pittore possa dipingere in una giornata di nebbia come questa: "Vienna", grande sunto musicale del cuore dell'Europa. La title-track è il pezzo più rappresentativo di questa seconda era degli Ultravox, l'era con Midge Ure al comando, gelido e oscuro ritratto delle speranze che vanno perse in uno scroscio d'acqua ai lati delle strade buie. "This means nothing to me", frase urlata con tutto il fiato che Ure ha in corpo e nell'anima, per chi sa ascoltarla ha lo stesso effetto di una coltellata, di qualcosa ormai andato perduto e cosa c'è di più triste della fine di qualcosa? Chiude "All Stood Still", riportando in alto, o meglio ad un livello accettabile, il nome del synth-pop da classifica: di nuovo i sinstetizzatori si contendono la scena con le chitarre di Ure in un pezzo modesto che suona comunque secco e buio, come tutto il resto. Dio, che freddo.

Questo quarto lavoro degli Ultravox ha due difetti lievi, il primo: "Astradyne", all'inizio, sarebbe stata contenta di avere una parte cantata, breve e ingenua finchè si vuole ma ci sarebbe stata benissimo. La seconda: "All Stood Still", alla fine, sta da cani; buttata nel mezzo avrebbe fatto una figura ben migliore lasciando la conclusione al vuoto di "Vienna" o all'onirica "Waiting", esclusa dalla tracklist e ripescata più tardi come b-side. Si tratta tuttavia di piccolezze, il gusto di un disco bianco, nero e con infinite sfumature di grigio in mezzo non ne risente. Il migliore degli Ultravox di Midge Ure.

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