Bando agli pseudo-alternativi di casa nostra. Ebbene sì, gli Uzeda sono addirittura italiani e quando ascolterete questo disco per la prima volta, magari apprendendo da qualche pagina web della loro provenienza, vi direte esattamente "Azz!".
Naturalmente li conoscono in quattro, forse anche qualche familiare, nonostante col tempo siano riusciti a ritagliarsi un piccolo, e quanto meno doveroso, angolino nel panorama musicale italiano. Ah, vero, li conosceva anche un certo Steve Albini, che, dopo averli ascoltati, non esitò ad accettare la loro proposta di farsi registrare proprio da lui, il produttore di "Surfer Rosa", "Rid of Me", "Tweez", o il più osannato "In Utero", tanto per citarne qualcuno. Quello che allora era già il chitarrista degli Shellac, per intenderci, e col quale nacque un'amicizia che permise alla band di lavorare in sua compagnia anche in seguito.
Tuttavia dobbiamo fare un salto indietro, quando Albini non c'entrava ancora niente con gli Uzeda e, tra i citati, aveva prodotto "soltanto" il capolavoro dei Pixies.
Dicevo della sorprendente italianità dei cinque misconosciuti che in realtà furono, con tutte le probabilità, i reali pionieri del noise-rock nazionale (spesso catalogati anche come band math-rock). Chi l'avrebbe mai detto?
Ma facciamo 'sto salto.
Pochi anni prima dell'incontro con Albini, usciva il primo LP degli Uzeda, "Out of Colours".
Il disco non presenta ancora l'irruenza noise che successivamente caratterizzerà il sound della band, nonostante sia già nell'aria e, in alcuni frangenti, quasi tangibile. Risulta piuttosto un'originale miscela di post-punk e rock alternativo - sebbene di stampo differente da quello che all'epoca, e siamo nel 1989, sfornava il movimento alternative in Italia (Afterhours) - fortemente influenzata dalla new wave. La new wave di Siouxsie o degli U2 prima maniera.
"Big Face", brano di chiusura che forse ricorda vagamente proprio "Spellbound", è la più concreta testimonianza del connubio di queste influenze. Le assonanze citate dunque ci sono, ma non sono in grado di riassumere l'intero contenuto del disco che riesce a mantenere tranquillamente una propria identità sviluppata da una forte assimilazione degl'anni '80.
La voce femminile che ci introduce nel disco è quella di Giovanna Cacciola. Una di quelle voci, spesso à la Kim Gordon e volentieri à la Siouxsie, che, forse per il contrasto con le distorsioni e le sonorità new wave o chissà cosa, riescono a conferire maggior fascino in quest'ambito.
Poi le chitarre di Nicosia e Tilotta, protagoniste dello scenario sonoro su cui danza la voce della Cacciola, che di rado provano a fare il verso a Moore e Ranaldo e che sono egregiamente supportate da Gulisano e Olivieri, rispettivamente al basso e alla batteria, dipingono l'atmosfera a loro immagine e somiglianza.
Tra i momenti migliori segnalerei il post-punk, sostenuto dall'egocentrismo delle chitarre, dell'aprente "Hallucinated Games"; la cupa "Goddamn Thoughts", che cambia colore nel ritornello; le strofe sbarazzine di "Angel", avvalorate dalla preponderanza della ritmica, delle chitarre; l'arioso tappeto sonoro di "Happy Birthday"; la "evoliana" "Between the Lines"; l'evocativa "Little Bird"; la sognante "Silent Bay" e la succitata "Big Face".
Insomma, sono parecchi i brani validi che contribuiscono a rendere l'album di buona fattura.
Tuttavia c'è da dire che (forse?) non si tratta del loro disco migliore e probabilmente risente un po' della produzione. Ma risulta essere un disco decisamente accettabile, specie se si considera qualche emblematico aspetto:
- si tratta di un disco d'esordio;
- auto-prodotto;
- roba che difficilmente avremo ancora modo di ascoltare da una "rock" band made in Italy.
Che dire? Un plauso agli Uzeda.
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