Da quando lavoro nell'ambito del vino, ho sviluppato un'insana passione per i bianchi (che da estremo ignorante quale ero prima, evitavo come la merda di cane sul marciapiedi), in particolare quelli con una spiccata acidità e preferibilmente giovani. Non fatemi neanche vedere Amarone, Primitivo, Brunello o quant'altro. Se posso scegliere ordinerò una Ribolla Gialla (ma non Gravner, un pazzo geniale per carità, ma troppo impegnativi i suoi bianchi), un buon Sauvignon dell'Alto Adige, un Verdicchio delle mie terre, se lo trovo un Riesling Renano sarebbe il massimo. Con questo non dico che i vini sopracitati siano cattivi, come non dico che gli Interpol sono degli incapaci (ma brutti sì), ma mi oriento oramai quasi naturalmente verso la spiccata acidità, nel bere come nella musica. E penso che, in un modo o nell'altro, anche Honey Owens, titolare del progetto Valet e già nei Jackie O' Motherfucker, subisca la stessa fatale attrazione.
A sentire questo "Naked Acid" (se si chiamasse acidità volatile calzerebbe a pennello), si capisce già che Owens è un pezzo avanti in quanto a gusti enologici. Probabilmente lei il vino se lo fa a casa sua, sulla West Coast americana, magari dentro stomaci di animale come gli antichi Greci, ma non aggiunge miele o spezie, lei se lo spara così, terrigno, selvatico e non mediato. Non si spiega altrimenti la gastrite che potrebbe provocarvi l'ascolto delle prime tre tracce. "We Went There" inizia in assolvenza come un classico krautrock, aggiunge scampanellii, suadenti vocalizzi sulla battigia, una chitarra stordita; "Drum Movie" apre un buco nero di immobilismo ambient drone in cui si può facilmente/fatalmente rimanere invischiati; infine "Kehaar" parla una lingua morta (o sembra qualcuno che coi morti ci parla davvero) e procede pachidermica e pasciuta in una nebbia lisergica da alba atomica.
Honey cerca di riprendersi dalla sbornia del suddetto archeovino, improvvisando una specie di blues astratto/astrale ("Fuck You") rifratto da un prisma caleidoscopico, mentre qualcuno decide di sovrapporre un altro brano (vi giuro, sembrano due pezzi che vanno per i cazzi loro!). Insomma, l'avrete oramai capito che la cara Owens è una bollita da antologia, e la sua musica pure. Un tipico prendere o lasciare. Un disco che potrebbe spingervi a tagliarvi le orecchie col trinciapollo, o lasciarvi estasiati e perennemente inebetiti sul divano fino a farvi venire piaghe da decubito.
Io non ho ancora capito se è una noia mortale, o un messaggio di un'entità aliena atterrata millenni fa sulla Terra, e che ancora non riesco a decifrare. Nell'attesa mi apro un Tocai Borgo del Tiglio.
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