Essay on "The Endless Descent of the Undercover Man"
Zundert, estremo sud dell'Olanda; seconda metà del XIX secolo. Soltanto una manciata di anni era trascorsa da quella tragica data del 1852 che segnò la morte di Vincent van Gogh. La sua tomba, da tempo ormai affogata tra decine di altre nel giardino di fronte alla chiesa, non suscitava particolare interesse tra i visitatori del modesto cimitero, ad eccezione unicamente del piccolo figlio del parroco, un ragazzino accigliato, costretto ad attraversare quotidianamente quel macabro sentiero per recarsi alle funzioni del padre. Anche se lo avesse voluto probabilmente non sarebbe riuscito ad impedire ai propri occhi, curiosi ed ingenui, di fissarsi febbrilmente sulle lettere incise nell'austera e spettrale lapide, benché, ad ogni nuovo passaggio, sentisse l'ombra oscena ed intollerabile di un dubbio atroce espandersi a macchia d'olio dentro di sé, come se tale disgrazia potesse in qualche modo essere imputata a lui. Lui che fatalmente si chiamava Vincent. Vincent van Gogh.
"Here at the glass - all the usual problems, all the habitual farce.
You ask, in uncertain voice, what you should do, as if there were a choice but to carry on
miming the song and hope that it all works out right."
All'epoca non era poi così inusuale trasferire il nome di un figlio morto nella primissima infanzia al successivo, quasi a voler confezionare una copia su misura, un rimpiazzo per colmare il vuoto lasciato dallo sfortunato primogenito. Il vero crimine fu piuttosto quello di sottoporre l'innocente fanciullo alla tortura derivata dalla costante visione di una pietra sepolcrale sulla quale vi era inciso il suo esatto nome, impedendogli pertanto di distogliere lo sguardo sia dall'inevitabile fine che prima o poi lo avrebbe aspettato, sia dalla colpa schiacciante di essere riuscito a venire al mondo solo grazie all'inconsapevole sacrificio del fratello maggiore. Difficile se non impossibile immaginare cosa possa scattare nel cervello di un bambino sperduto, nell'attimo in cui, specchiandosi con la propria tomba, realizzi di essere nato niente meno che dalla morte stessa.
"I reflect: 'It's very strange to be going through this change
with no idea of what it's all been about except in the context of time...'
Oh, but I shirk it, I've half a mind not to work it all out."
Quanti cambiamenti si susseguirono da quel momento in poi nella vita del piccolo Vincent! Quante strade percorse, tentando inizialmente di uniformarsi all'altolocato ceto borghese con una disastrosa carriera scolastica in collegio, seguendo poi le orme dei parenti più facoltosi imboccando, come da tradizione familiare, l'irritante via del mercante d'arte, per lanciarsi infine, sulla spinta di un delirio religioso scaturito dall'incapacità cronica di relazionarsi con gli altri, in un'improbabile carriera di predicatore degenerata di lì a poco in una sorta di spietato auto-martirio. Fortunatamente, dopo alcuni anni a dir poco strazianti, lo colpì un tipo molto più stimolante di fanatismo e decise di dedicare la sua disastrata esistenza all'arte e alla rappresentazione cruda e violenta della realtà. Nemmeno la presenza della disperata Sien accanto a sé riuscì a distoglierlo dai suoi intangibili propositi, al punto che, messo di fronte alla difficile scelta fra l'avere una famiglia (dovendola pure sfamare) e continuare a dipingere, non esitò più del necessario a falciare ogni rapporto umano ed abbracciare finalmente la sua inquietante natura, instabile e dolorosa quanto unica e geniale.
"Is this madness just the recurring wave of total emotion,
or a hide for the undercover man, or a litany - all the signs are there
of fervent devotion - or the cracking of the dam?"
Ma possiamo davvero arrivare a parlare di pazzia? È curioso come ogni termine risulti inesatto o perlomeno approssimativo nel descrivere qualsiasi aspetto della vita di van Gogh. Nel 1975, ad esempio, il giornalista Jonathan Barnett, recensendo quell'imponente monumento al progressive più intenso, drammatico e tormentato che risponde al nome di "Godbluff", prese l'impressionismo come riferimento per paragonare l'arte del pittore olandese alla tecnica sincopata ed imprevedibile del sassofonista David Jackson, creando un interessantissimo parallelo che ha fatto storia tra i fans dei Van der Graaf Generator. Inutile negare quanto Vincent rimanga stretto nella definizione di "semplice" impressionista, avendo nettamente superato tale corrente, oltre ad aver introdotto i fauves, anticipato l'espressionismo e addirittura contemplato l'astrattismo, tuttavia il ponte con il singolare stile di Dave rimane solido e crea delle innegabili suggestioni durante l'ascolto di quella parabola, gotica ed introspettiva, che va dalle marce crepuscolari di "The Least..." ai toni autunnali e nostalgici di "Still Life".
"It's cracked; smashed and bursting over you, there was no reason to expect such disaster.
Now, panicking, you burst for air, drowning, you know you care for nothing and no-one but yourself
and would deny even this hand which stretches out towards you to help."
È proprio intorno alla metà di siffatto percorso, dopo aver raggiunto le vette poetiche di "H to He..." e svelato gli abissi esistenzialisti di "Pawn Hearts", che l'equilibrio, ormai troppo perfetto e delicato per durare, si spezzò. Così come molto tempo prima, nella celebre casa gialla di Arles, si lacerò l'unione creativa tra Gauguin e van Gogh, inducendo quest'ultimo a tagliarsi un orecchio e regalarlo a Raquele, la sua prostituta preferita, anche la campagna esplorativa del vascello di Hammill subì un arresto, generando allo stesso modo situazioni curiose, per quanto meno cruente, che vanno dalle stravaganti escursioni in solitaria del capitano alle tranquille riunioni del resto della ciurma sotto lo stendardo "The Long Hello". "Godbluff" segna la ripresa del viaggio, dopo 3 anni di sosta, ed il DVD "Live 1975" ne sigilla il valore e l'impatto grazie alla dimostrazione di un'intesa rafforzata, più sobria e bilanciata che in passato, dove le imprese canore di Peter, nel lirismo incorniciato dalle pennellate del flauto ("The Undercover Man") come nell'angoscia esasperata dall'incessante mormorio del sax ("The Arrow"), vengono avvolte come un'edera dagli altri strumenti, che si parli dei mosaici d'organo di Hugh Banton ("Scorched Earth") o che ci si concentri sul ritmo convulso delle bacchette ubriache di Guy Evans ("Sleepwalkers").
"When the madness comes, let it flood on down and over me sweetly,
let it drown the parts of me weak and blessed and damned,
let it slake my life, let it take my soul and living completely, let it be who I am."
Oltre al sopracitato concerto, tenutosi il 27 Settembre 1975 in Belgio, a Charleroi, questo prezioso forziere digitale ci propone una performance per la tv (sempre belga) risalente al 21 Marzo del '72 e precedentemente pubblicata nella collana "Masters from the Vaults". La scaletta è molto semplice, comprendendo essenzialmente la colossale "A Plague of Lightouse Keepers", introdotta però dall'energico strumentale "Theme One", in cui la perizia di Hugh e la furia di Guy, seguendo l'indomita guida del sassofono di un David Jackson amatissimo dalle telecamere, si convogliano in un suono lancinante e prolungato, tanto simile al finale di "The Talking Drum" che ci si aspetterebbe quasi di assistere ad un'incursione a sorpresa della cavalleria di Fripp, se non fosse dovuto passare ancora un anno prima che le "lingue di allodola in gelatina" venissero introdotte a corte, nel sofisticato menu delle cucine del Re Cremisi. L'entrata in scena di Peter segna poi l'inizio di un'interpretazione da brividi, la quale, tra lamenti sommessi, crisi mistiche, attacchi nevrotici e folgoranti ispirazioni, si snoda per tutta la lunghezza di una delle suite più passionali e travolgenti del progressive tutto.
"There may not be time for us all to run in tandem together - the horizon calls with its parallel lines.
It may not be right for you to have and hold in one way forever
and yet you still have time, you still have time."
Sebbene avessero ancora tempo per continuare ad esprimere le loro distorte visioni per mezzo di quella musica così oscura e singolare i Van der Graaf Generator si divisero nel '76 dopo l'uscita di "World Record" ed il tentativo, piuttosto contorto, di continuare l'opera senza il maestro d'organo e l'insostituibile van Gogh del sassofono (che torneranno comunque per la splendida reunion del 2005). Il pittore legittimo proprietario del suddetto nome, aveva anche questo tratto in comune con la band: il tempo a disposizione. Quando l'esistenza cominciò a scivolargli tra le dita, imprigionato nell'apatia del manicomio di Saint-Rémy; quando precipitò in uno stato di depressione ed indifferenza grazie alle incompetenti cure del miserabile dottor Gachet; quando, stremato, decise di piantarsi una pallottola nello stomaco, disteso dentro una fossa, aveva appena 37 anni. Un periodo tutto sommato breve, ma anche intollerabilmente lungo se composto esclusivamente da sconforto, abbandono, miseria e solitudine, sterminata ed invalicabile solitudine, ad eccezione forse dell'appoggio del fratello Theo, il quale, per quanto non incondizionatamente, aveva sempre provveduto al sostentamento di Vincent, credendo, se non nelle qualità della sua persona, perlomeno nel potenziale valore della sua straordinaria arte.
"Mio caro Theo,
[...] Nella vita di un artista la morte probabilmente non è la sfida più ardua. Ammetto di non saperne proprio niente, ma osservare le stelle mi fa sempre sognare. Un po' come mi fanno sognare i punti che nelle mappe stanno ad indicare città e villaggi. Perché, mi chiedo, i punti luminosi del cielo non dovrebbero essere accessibili quanto quelli neri sulla mappa della Francia? Così come prendiamo il treno per arrivare a Tarasçon o a Rouen, possiamo prendere la morte per raggiungere una stella. [...]
Adesso vado a dormire, poiché si è fatto tardi; ti auguro buona notte e buona fortuna.
Un abbraccio, Tuo
Elenco tracce e testi
02 Arrow (09:03)
Stub towers in the distance,
riders cross the blasted moor
against the horizon.
Fickle promises of treaty,
fatal harbingers of war, futile orisons
swirl as one in this flight, this mad chase,
this surge across the marshy mud landscape
until the meaning is forgotten.
Hood masks the eager face, skin stretched and sallow,
headlong into the chilling night, as swift as any arrow.
Feet against the flagstones,
fingers scrabbling at the lock,
craving protection.
'Sanctuary!' croaks a voice,
half-strangled by the shock of its rejection.
Shot the bolt in the wall, rusted the key;
now the echoes of all frightful memory
intrude in the silence.
What a crawl against the slope - dark loom the gallows.
One touch to the chapel door, how swiftly comes the arrow.
"Compassion" you plead,
as though they kept it in a box -
that's long since been empty.
I'd like to help you somehow,
but I'm in the self-same spot:
my condition exempts me.
We are all on the run, on our knees;
the sundial draws a line upon eternity
across every number.
How long the time seems, how dark the shadow,
how straight the eagle flies, how straight towards his arrow.
How long the night is - why is this passage so narrow?
How strange my body feels, impaled upon the arrow.
03 Scorched Earth (10:10)
(Hammill - Jackson)
Just one crazy moment while the dice are cast,
he looks into the future and remembers what is past,
wonders what he's doing on this battlefield,
shrugs to his shadow, impatient, too proud yet to kneel.
In his wake he leaves scorched earth and work in vain;
smoke drifts up behind him - he is free again,
free to run before the onslaught of a deadly foe,
leaving nothing fit for pillage, hardly leaving home.
It's far too late to turn, unless it's to stone.
Charging madly forward, tracks across the snow,
wind screams madness to him, ever on he goes
leaving spoor to mark his passage, trace his weary climb.
Cross the moor and make the headland -
stumbling, wayward, blind.
In the end his footprints extend as one single line.
This latest exponent of heresy is goaded into an attack,
persuaded to charge at his enemy.
Too late, he knows it is, too late now to turn back,
too soon by far to falter.
The past sits uneasily at his rear,
he's walking right into the trap,
surrounded, but striving through will and fear.
Ahead of him he knows there waits an ambuscade
but the dice slip through his fingers
and he's living from day to day,
carrying his world around upon his back,
leaving nothing behind but the tell-tale of his track.
He will not be hostage, he will not be slave,
no snare of past can trap him, though the future may.
Still he runs and burns behind him in advanced retreat;
still his life remains unfettered - he denies defeat.
It's far too late to turn, unless it's to stone.
Leave the past to burn - at least that's been his own.
Scorched earth, that's all that's left when he's done;
holding nothing but beholden to no-one,
claiming nothing, out of no false pride, he survives.
Snow tracks are all that's left to be seen
of a man who entered the course of a dream,
claiming nothing but the life he's known
- this, at least, has been his own.
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