Premessa fondamentale, dato che molti daranno uno di default per la solita storia dell'"Eh ma è già stato recensito". Questa NON E' UNA RECENSIONE. E' SEMPLICEMENTE UNO SFOGO, una libera espressione del mio legame con "Pawn Hearts", dedicato al disco più importante della mia vita, null'altro.
“Chi sono io?” “Perché esisto?” “Qual è il senso della vita di noi uomini?” “Siamo destinati a morire da soli e abbandonati?” “Siamo ciò che crediamo di essere?” “Oppure siamo l’ombra di noi stessi?”
La mia vita per anni si è basata su questi quesiti, che sembrano destinati tutt’ora ad essere irrisolti. Siamo sempre alla ricerca di certezze in ciò che viviamo, nelle persone che più di ogni altra cosa amiamo, che siano esse i propri migliori amici, che siano essi familiari o perché no, la donna o l’uomo della nostra vita. Cerchiamo sempre risposte là dove non ci saranno mai. Siamo avari sotto questo punto di vista. Cerchiamo sempre di arricchire la nostra ricerca di senso, ma ciò che avremo non sono verità. Siamo avari di certezze. La verità è che le soluzioni non verranno mai seriamente date all’uomo, l’uomo non ha bisogno di certezze.
La mia vita, per quattro anni “buoni” (si fa per dire), è stata intrappolata dentro un alibi che impediva al mondo di manifestare il “vero” Gabriele Gilli per quello che era. Il vero Gabriele Gilli scalpitava, finché un giorno non si imbatté nell’opera che più ama in assoluto, “Pawn Hearts”. “Pawn Hearts”, esattamente come le altre cose che ama, non gli ha dato certezze. In amore nulla è certo, nulla è scontato, nulla è “vero”. È un sentimento che sfugge dalla logica.
“Pawn Hearts” non è un semplice disco. Affatto. “Pawn Hearts”, nel momento in cui inizia, è un viaggio all’interno della mia psiche, alla ricerca di risposte che non sembrano arrivare mai in altri contesti, nei momenti disperati in cui non riesco a capire chi sono, come se fosse necessario “capire”. Perché questo sono. Spesso mi convinco che l’amore per le persone più importanti della mia vita possano darmi delle risposte e delle certezze per il futuro, ma ogni volta il futuro è ignoto, e mi dispero, a ciucciare il pollice come un bambino in fasce che si allontana per pochi minuti dalla madre.
L’uomo non ha bisogno di capire o di sapere della sua condizione, e “Pawn Hearts” lo dimostra egregiamente.
“Pawn Hearts” parte subito a bomba: irrompe timidamente, ma con potenza “emotiva” che non ha eguali. È appena iniziato il mio viaggio, ed irrompe subito una leggiadra quanto drammatica chitarra (che a metà brano verrà suonata da sua maestà Robert Fripp, ospite d'onore di un livello fin troppo elevato, non vi sto a spiegare perché, lo dovete sapere già). Irrompono subito i fiati suonati da David Jackson, mentre la voce di Peter Hammill scandisce parole dolci, ma che preannunciano la paura dell’uomo. È solo l’inizio, Hammill descrive esattamente la mia paura: i lemmings si stanno tutti gettando in mare, per abbandonarmi, e tutto mi sembra così surreale.
Il contesto surreale in cui mi ritrovo viene egregiamente descritto da quel duello forsennato tra l’organo di Banton e il sassofono di Jackson, che vengono accompagnate dalla perpetua batteria da marcia tribale di Evans. Peter Hammill interpreta le due voci dei due personaggi coinvolti nella trama: il disperato uomo, che vede nel suicidio la sola via di uscita, e il profeta, che soggiunge, con tono quasi duro ma deciso nel povero uomo che ormai vede tutto scomparire sotto i suoi piedi.
Abbiamo sempre cercato degli eroi, ma di eroi per gli uomini non esistono, nemmeno gli dei possono darci le risposte che cerchiamo. Non esistono risposte. Dobbiamo andare avanti. Le parole del profeta risuonano potenti nella mia anima, mentre la chitarra riemerge timidamente, per essere nuovamente “demolita” dal caos comandato dalla voce rabbiosa di Peter Hammill, che emerge improvvisamente con delle urla strozzate, strazianti e strangolate da un vuoto esistenziale che sembra non abbandonare l’uomo comune. Inizia un atmosfera cosmica ed irregolare all’improvviso, intervallata tra momenti di quiete illusoria a momenti di follia assurda. Non ci sono soluzioni per uscirne fuori. Esiste una via: la collettivizzazione umana, unirsi tra gli uomini, sangue nel sangue, per affrontare il dramma esistenziale della nostra vita, che viene descritto perfettamente dal pianoforte cadenzato ed impazzito di Banton. “What choice is there left but to live? To save the little ones?” Cosa possiamo fare per “salvare” i nostri cari che sembrano annegare tutti nel mare dell’oscurità e del nulla?. Nulla. “Lemmings non dà alcuna risposta. Dobbiamo solo andare avanti, insieme, non ci sono certezze alle quali ancorarci, e dobbiamo convivere con questa nostra condizione e trovare la forza dentro noi stessi. “Lemmings” si conclude con dei soavi fiati, che si interrompono bruscamente nel finale, come a segnalare che i problemi dell’uomo non si esauriscono solo sul senso di abbandono perpetuo che lo contraddistingue. E’ solo l’inizio.
Con decisione, dolcezza, drammaticità e dolore inizia “Man-Erg”, il brano che segna l’inizio del dualismo dell’uomo. Un dualismo che lo contraddistingue dall’alba dei tempi. “Siamo assassini o angeli?”, si chiede Peter Hammill, mentre nella disperazione cerca risposte, mentre l’angelo e l’assassino, con atteggiamenti diversi, scalpitano dentro di lui per uscire.
Il brano interrompe bruscamente la malinconia. Inizia il degenero psicologico dell’uomo, segnato da soffiate “elettriche” e fulminee di David Jackson, sostenute in piedi dalle tastiere di Banton. Si percepisce nell’aria un urlo disperato (quasi un urlo di Munch della seconda metà del novecento) di Peter Hammill che emerge nell’aria. “How can I be free? How can I get help? Am I really me? Am I someone else?” Il dualismo dell’uomo sta distruggendo le certezze dell’uomo, lo sta privando della libertà, lo sta privando della sua identità. Non è più se stesso. Almeno questo è quello che lui crede di non essere più. Ovvero un uomo.
Il ritmo rallenta, per esplodere definitivamente all’arrivo di quel dolente pianoforte, che in un attimo di quiete irrazionale cerca di accompagnare l’uomo (o meglio, l’individuo che crede di essere privato e schiavo del suo dualismo). Il sassofono di Peter Hammill sembra dare quasi serenità della mia anima, mentre io rifletto su me stesso. Sono Gabriele Gilli? Oppure l’ombra di me stesso? Sono un ragazzo buono e ingenuo? Oppure sono un ragazzo stronzo e cinico privo di buon senso? E mentre sto cercando di risolvere questo mio dubbio, il sassofono di Jackson descrive i miei ricordi, ricordi fortissimi potentissimi, che possono darmi consapevolezza del mio io che sembra quasi perduto in questo enorme dualismo. Il romanticismo violento del sassofono di Jackson duetta con l’incidere drammatico quanto speranzoso del pianoforte di Banton.
Non ho trovato risposte. “Man-Erg” non dà soluzioni, non dà certezze. Però, regala una consapevolezza all’uomo. Insegna all’uomo a convivere con il dualismo che non lo abbandonerà mai. L’uomo, convivendo con tale dualismo, raggiunge la consapevolezza di essere uomo e riesce a essere uomo in istanti in cui non riesce ad esserlo. Perché amando se stessi per ciò che si è si ha la possibilità, a volte, di trovare quell’apparente serenità che tanto bramiamo e che tanto necessitiamo. “Pawn Hearts” non sta dando alcuna risposta. Noi dobbiamo imparare a convivere con ciò che abbiamo e con ciò che siamo, e capire che nella maggior parte dei casi non possiamo ottenere ciò che desiderare, ma ottenere ciò di cui necessitiamo. E ciò di cui noi necessitiamo è la consapevolezza di noi stessi, che ci viene donata da “Man-Erg”, quasi maestra di vita. Una maestra però insolita, dato che non ci insegna proprio un bel nulla come invece direbbe il suo “nome”. Un potentissimo coro singolo di Hammill conclude il brano, mentre l’ennesimo incedere del pianoforte e del sassofono descrivono scenari che profumano di speranza come non mai, nonostante note drammatiche che smorzano parzialmente l’entusiasmo, per poi interrompersi bruscamente.
Il mio viaggio dentro di me non è ancora concluso, però. Deve ancora iniziare la terza parte del mio viaggio, la parte più bella. La degna conclusione universale della mia avventura dentro di me. Con sofferte quanto decise noti di pianoforte inizia “A Plague Of Lighthouse Keepers”, la canzone della mia vita, in cui è descritto tutto il mio percorso esistenziale, dall’inizio alla fine, dalle mie paure più profonde di vuoto esistenziale alla mia dolcezza mai celata negli ultimi mesi.
“Still waiting for my saviour, Storms tear me limb from limb. My fingers feel like seaweed. I'm so far out, I'm too far in. I am a lonely man. My solitude is true. My eyes have borne stark witness. And now my nights are numbered too. I've seen the smiles on dead hands. The stars shine but they're not for me.” La soffice voce di Hammill descrive appieno le mie notti insonni, a cercare di capire chi sono. Inizia la furia disperata di Hammill, che aumenta di aggressività. Il salvatore della mia anima non sembra arrivare. Anzi, probabilmente non esiste proprio. Le stelle brillano, nella loro musica si percepisce ciò. Ma le stelle brillano per altri, non per il diretto interessato. Profetizza nell’aria delle catastrofi che si imbatteranno facilmente contro di lui. La disperazione sembra avere il sopravvento nell’uomo, quando all’improvviso il caos si placa. Timidamente, emergono nell’aria dei “vapori” inquietanti del sassofono che scandiscono un tempo ormai povero di speranze, per poi lasciare spazio all’organo, che suona noti dolenti, ma che allo stesso tempo cercano di donare sollievo alla mia anima. L’organo viene quindi abbattuto da una marcia tribale, per poi far riprendere il tema iniziale. Si ritorna al dramma inizialmente descritto. La follia ha il sopravvento nella mia mente, il ritmo diventa sempre più frenetico, ai limiti del ballabile in alcuni punti, ma c’è poco del quale divertirsi: ormai sto navigando in mari che non riesco a dominare, e non può raggiungere il fantomatico porto che può dare senso alla sua vita. La drammaticità della suite aumenta sempre di più, per poi spegnersi in un quasi silenzio, che viene spezzato dalla flebile presenza della batteria e da un organo che ormai segna la sconfitta apparentemente definitiva delle speranze.
Ormai sono solo. Tutti coloro che mi erano vicini sono “morti”, non sono più con me. Ormai non c’è nulla da fare. La voce distorta di Hammill (come se si trovasse in una vasca da bagno prima di compiere l’estremo gesto del suicidio) sussurra “Would you cry if I died? Would you cry if I died?”. Appunto, cosa importa a voi, miei amati, se finiscono oggi i miei giorni? Ma ormai non c'è tempo di morire, non è giunto il momento che il fato ha deciso per me. Sono combattuto dentro di me, voglio crescere, ma ho anche paura di non riuscire ad essere libero, dato che la mia mente e il caos che mi dominano mi impediscono raggiungere questo scopo. Mentre le mie paure hanno il sopravvento (“I know no more ways. I am so afraid. Myself won't let me just be myself. And so I am completely alone”), il duello sassofono-pianoforte, al massimo del dramma della suite, scandiscono i miei virtuosismi di disperazione. Tale duello si interrompe, per lasciare spazio ad un pianoforte “strano”, che presenta un andamento quasi a “cascata” nel suo andamento. Le note disperate si stanno polverizzando, come a simboleggiare la fine delle mie certezze e della mia “esistenza”. Ma all’improvviso, il pianoforte irrompe potente, recuperando quelle note di speranza che stavano precipitando nel vuoto della mia oscurità interiore. Si stanno per alimentare delle flebili speranze. Un faro nell’oscurità si sta accendendo, ma mi sta accecando. Non riesco ad osservarlo, ma è là, fermo, che mi attende.
Il pianoforte, intrecciandosi amabilmente col pianoforte, descrive nuovi scenari di dolcezza della mia indole, che vuole raggiungere la felicità, ma che è accecato. La memoria si sta nutrendo della mia mente, vorrei camminare sull'acqua, fare cose che mi sono proibite, però non voglio bagnare i piedi di questa sofferenza che logora la mia mente. È vicino al faro, che mi guida verso la felicità, ma tale luce è troppo vicina e non fa altro che accecarmi. Un flebile sassofono sembra donare speranze, ma sembra essere giunta la fine per me. Ormai sono rassegnato, voglio la felicità, ma non riuscirei realmente ad accettarla. Il caos più assoluto pervade per l'ennesima volta la mia gracile psiche, vedo i Lemmings arrivare marciando, ma non posso di certo affrontarli, io sono solo un uomo solo. Come posso fare? Ormai è la fine.
E dal nulla, mentre un vortice sonoro sta risucchiando la mia anima, il pianoforte giunge, mi libera dal vortice, catapultandomi in dolci scenari che sembrano donarmi serenità, coccolarmi, Oceans drifting sideways. I am pulled into the spell. I feel you around me. I know you well. Stars slice horizons. Where the lines stand much too stark. I feel I am drowning. Hands stretch in the dark”. Nonostante i flebili pensieri che sembrano ormai pervadermi, le tastiere elettroniche aprono nuovi scenari. Ormai sono giunto alla fine. Cosa posso fare? La fine è un nuovo inizio, ciò può donarmi sollievo. “I think the end is the start”. Ma l’inizio dov’è?
“ALL THINGS ARE A PART”. Ecco cosa siamo. Siamo una parte di un universo enorme, ma dobbiamo imparare a essere forti, imparare che siamo noi stessi solo se siamo consapevoli di ciò che siamo. Noi non smetteremo mai di essere uomini, se siamo consapevoli di essere anche solo una piccola parte che conta nell’universo.
Un coro poetico, insieme ad un assolo elettrico, accompagna la mia anima verso la purificazione, ho ottenuto ciò che volevo. Questo individuo, alto 1.80 metri, di 72 kg, coglione, ha trovato la consapevolezza di se stesso, ancora una volta in ciò che ama. Il brano sembra durare in eterno, come se volesse proseguire senza una fine definita, con un futuro indefinito. Ma a noi non interessa il futuro.
A noi interessa il presente, non ha senso che continuiamo a vivere nei rimpianti di un passato che non ci appartiene più, così come non ha senso continuare a vivere nella paura di un futuro che ancora deve arrivare.
Ascoltare “Pawn Hearts” è un brivido continuo, come gli attimi in cui vedevo Milito che dribblava Van Buyten nella finale di Madrid, oppure come abbracciare per la prima volta una delle persone più care il giorno in cui la conobbi (istanti più belli della mia vita, per la cronaca, quando ho conosciuto questa mia cara amica, ma va beh, son dettagli superflui). E’ come intravvedere speranza in momenti in cui sembrava svanire. La speranza non la alimenta la fede, e la alimentiamo noi uomini, non dalle certezze che cerchiamo, ma dalle consapevolezze che noi abbiamo di noi stessi, di ciò che siamo stati, di ciò che siamo e di ciò che possiamo essere. “Pawn Hearts” non mi regala certezze. Non insegna un bel nulla.
Ascoltare il più grande disco della mia vita mi costringe a guardarmi allo specchio, come nessun’altra opera, e nello specchio vedo un universo continuo, dominato dalla mia spontaneità emotiva che sembra incontrollata, ma so che prima o poi troverò la forza per rialzarmi. “Pawn Hearts” non mi dà ciò che voglio, mi dà solo ciò di cui ho bisogno. Speranza, consapevolezza e amore, un amore che mai perderò e che donerò sempre alle persone a cui tengo.
Perchè “Pawn Hearts”, più di ogni altra opera (e come pochissime altre cose nella mia vita) mi dà un’identità. Con “Pawn Hearts” sono io, Gabriele Gilli, un uomo con i suoi limiti, che vuole dare se stesso e di più per la felicità del prossimo, ma che cerca, nella forza delle sue amicizie più care, quasi fraterne, di trovare sempre la forza per andare avanti.
“Pawn Hearts” significa vita, un grido potente di “lemmings” che sembrano precipitare con rassegnazione nell’oceano della disperazione collettiva, ma che, con la propria forza d’animo, potranno riemergere, con vigore, partendo da dove avevano concluso e per cominciare ad essere se stessi.
Carico i commenti... con calma