"The Least We Can Do Is Wave to Each Other" è un disco che amo particolarmente della discografia del Generatore e, a mio avviso, uno dei loro migliori. Il precedente "The Aereosol Grey Machine" doveva essere, in realta', l'esordio solista di Hammill anche se rimane un grande disco, sicuramente il preferito da chi e' un seguace della psichedelia e non ama gli eccessi del progressive. In The Least We Can Do Is Wave to Each Other entra una figura fondamentale che caratterizzerà il suono dei VDGG per quasi tutta la loro carriera ovvero David Jackson con il suo mitico doppio sax. Inutile dire che, per molti, i Van Der Graaf sono stato Hammill e Jackson: la dipartita di quest'ultimo ha fatto storcere il naso a molti fans secondo cui l'ultima incarnazione del Generatore e' qualcosa di monco e imperfetto.

Il suono del gruppo tende molto ad atmosfere cupe e gotiche, tanto che si può definire la musica proposta una variante dark del genere progressive: le liriche di Hammill infatti tendono spesso ad avventurarsi in tematiche necrofile ed orrorifiche, retaggio questo del suo amore per la narrativa gotica di autori quali Poe ( a cui dedicherà in seguito il disco solista "The Fall of the House of the Usher" ) e Lovecraft. I testi sono complessi, mai banali e mischiano scienza a riferimenti letterari.

L'inizio è subito aggressivo con "Darkness": un sibilo minaccioso di vento fa subito presagire a cosa andremo incontro, ovvero un incubo declamato dalla voce parossistica di Hammill sostenuta dal basso di Nick Potter, dai "riff" aggressivi di sax e dall'organo spettrale di Banton: siamo immersi in un'atmosfera apocalittica e da fine del mondo. Il pezzo sara' uno dei loro cavalli di battaglia dal vivo del periodo. Soprattutto, a sorpresa, i VDGG ebbero molto successo in Italia dove venivano accolti come vere e proprie star e diventarono un gruppo di culto con un seguito maggiore rispetto all'Inghilterra. Ancora oggi non hanno problemi ad ammettere che se non fosse stato per l'Italia la loro storia sarebbe stata differente. Con "Refugees" ci troviamo di fronte ad un loro classico senza tempo, una canzone tipicamente Hammilliana e intimista che tocca vette altissime.

Poi con "White Hammer" improvvisamente torna il suono lugubre dell'organo e piano piano l'incauto ascoltatore capisce che non c'è scampo, le liriche riportano indietro nel tempo agli orrori dell'Inquisizione, l'atmosfera è più che mai da suicidio e poco consolatoria con un finale delirante sostenuto dal sax di Jackson e da un organo da messa nera.Si ritorna poi ad un'apparente calma con il magnifico quadretto bucolico di "Out of my Book" che vede l'uso della chitarra acustica e con la più aggressiva "Whatever Would Robert Have Said". Si chiude con "After the Flood", il brano più lungo a testimonianza di come il gruppo si stesse adeguando ai canoni di durata dell'epoc: si tratta di una delle prime mini-suite che ascolteremo anche nel successivo "H to He - Who Am the Only One".

Pur non essendo il loro capolavoro ( quello resta "Pawn hearts" ) questo è forse il disco dei VDGG che preferisco: il "feeling" gotico e delirante, alternato a momenti più quieti e intimisti mi ha sempre ipnotizzato e reso la musica di questi solchi indimenticabile.

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