Anno ottavo del settimo decennio del XX secolo.

Il progressive è ormai agli sgoccioli: il Re ha abdicato completamente ritirandosi nella sua oscura corte, la romantica Genesi (privata dell’Arcangelo e del suo silenzioso e baffuto menestrello) sta per scomparire e perdersi in balia delle onde del marasma pop, il noto Agronomo Inglese ha deposto ormai il suo miglior flauto nella cassettiera, la Macchina Leggera ha del tutto esaurito il suo carburante da un bel pezzo e l’Anglosassone Particella Affermativa è divenuta negazione.

Tra tutti i mitologici protagonisti che hanno caratterizzato quello strambo e futuristico mondo denominato art rock, solo uno si erge più maestoso di tutti e sembra ancora condensare per l’ultima volta dentro di sé quella grande carica elettrostatica che lo ha sempre contraddistinto da tutti gli altri personaggi: stiamo parlando del Generatore. Quest’ultimo, conscio di stare per perdere tutti i suoi cationi, anioni ed elettroni, ci lascia come testamento un ultimo grande monumento scientifico e concentra tutta la sua elettrica ed ululante follia in un doppio da un miliardo di Volt: un qualcosa di dinamico, energico, efficiente, “vitale”.

Sebbene nel corso del tempo il nostro marchingegno elettrico abbia perso qualche ingranaggio fondamentale che costituiva un tassello importante per la sua pazza ed irrequieta energia (e qui i riferimenti al gotico tastierista Hugh Banton sono palesi), il suo cuore pulsante e il suo nocciolo atomico fondamentale in questo ultimo album sembra rigenerarsi del tutto ed imbrattarsi di pece nera, complice la presenza di due nuovi congegni che vanno ad adattarsi al suo fulcro nucleare: al basso il mai troppo compianto Nic Potter, che aveva suonato già nel secondo album del gruppo, ed al violino (strumento atipico per la band) Graham Smith; purtroppo a pochi brani si limita invece la presenza comunque importante del Van Gogh del sassofono, ovvero Mr. David Jackson. Il centro di controllo elettrostatico vero e proprio è però sempre lui, il re dell’ugola Peter Hammill, che qui riesce a raggiungere un’aggressività interpretativa e vocale da inquietare persino il più assiduo ascoltatore: la sua voce urla, grida, rumoreggia, sbraita, sussurra, si erge minacciosa. Il sound è completamente imbrattato di melma sporca, infangato di sostanze oscure e ricoperto da un tetro immaginario. A testimoniarlo qualche pezzo del vecchio repertorio come una “Pioneers Over C” cacofonicamente paurosa che sfiora quasi i venti minuti di durata, una violenta versione di “Still Life” (che sostituisce l’organo con il violino) o l’intermezzo “Urban/Killer/Urban” che tocca apici altissimi dal punto di vista strumentale. Però non limitiamoci solo a questi tre pezzi, il contenuto è amplissimo: basti pensare al distruttivo incipit di “Ship of Fools”, all’estasiante rumore di “Door” o alla vecchia e magica “A Plague of Lightouse Keepers”, qui in medley con “The Sleepwalkers”.

Si potrebbe parlare di Progressive, ma non lo è affatto: la musicalità è troppo furiosa e rabbiosa per essere tale. Per questo, possiamo identificare “Vital” come un episodio magico ed anomalo per la storia dei Van Der Graaf Generator: se da una parte rifiuta il movimento in cui di solito viene inquadrato, dall’altra parte tende una mano ad alcuni generi che in quegli anni stavano emergendo, come per esempio il Punk e la New Wave. Come ben sappiamo, con la pubblicazione di questo disco la band si scioglierà per poi ricongiungersi soltanto molto tempo dopo. Eppure l’ultimo eco atomico ed elettrostatico del Generatore targato settanta rimbomba e grida ancora a distanza di anni e rilascia nella memoria di tutti le sue ultime onde elettromagnetiche nere e pungenti.

Ecco, forse c’è un genere in cui il live può inquadrarsi: Progressive-Punk o Progressive-Wave. Possiamo quindi azzardare la definizione di “Pronk”, che forse qui viene utilizzata per la prima volta non nella sua giocosa accezione a cui di solito siamo avvezzi.

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