Dopo “La Città che Io Vorrei” del buon Ivan Graziani, recensito qualche settimana fa, torno a parlare di album d’esordio un po' trascurati e snobbati. Questa volta è il turno del Vasco nazionale e l’album a cui faccio riferimento è il primo lavoro del rocker di Zocca “…ma cosa vuoi che sia una canzone…” (1978). Quando si parla di Vasco, non si ha a che fare con artisti come De Andrè, De Gregori, Battiato, Guccini, Gaber etc., con una poetica ricca di riferimenti storici, culturali, filosofici, estremamente affascinanti da un lato ma, dall’altro lato, non particolarmente immediati e complessi da decifrare ed assorbire, almeno per alcuni. Quando si parla di Vasco, invece, si ha a che fare con un linguaggio totalmente diverso, scevro da qualsiasi sovrastruttura; un linguaggio a volte, forse, fin troppo essenziale ma, senza ombra di dubbio, estremamente diretto, facile da comprendere e da interiorizzare. Vasco elimina la sovrabbondanza di materiale e va dritto alla sostanza, svincolandosi da pleonastici giri di parole. E poi, nella sua scrittura, emerge una forte componente empatica che lo rende fruibile ed apprezzato da un gran numero di ascoltatori.
Il disco in questione è abbastanza diverso da quelli che verranno, soprattutto dalla metà degli anni 80 in poi. Già qui, però, emergono i primi tratti caratteristici della scrittura di quel che sarà, oggettivamente, l'icona più grande della musica pop/rock nazionale degli ultimi 35 anni. C'è la classica teatralità di Vasco, quel "cantato non cantato" ruvido, ricco d'enfasi, c'è lo sguardo cinematografico, c'è l'uso di un linguaggio semplice ma estremamente diretto e comprensibile, c'è il conflitto relazionale uomo-donna (vero marchio di fabbrica), ci sono i primi, splendidi, bozzetti femminili (sensibilità affinata da una gioventù circondata da donne), in bilico tra poesia e trasgressione. Diciamo che il Vasco presente in questo album nasce da una sorta di mix eterogeneo composto, principalmente, da elementi cantautorali, qui ancora abbastanza forti (io ci ritrovo delle caratteristiche di Gaetano, soprattutto per l'ironia e il fare istrionico, e qualcosa di Graziani, per i meravigliosi bozzetti femminili e di vita quotidiana), e da elementi rock e progressivi (piccoli richiami musicali alla tradizione prog anglosassone tradiscono una passione, confermata, poi, dallo stesso Vasco e da Curreri, per Genesis, Gentle Giant e Robert Fripp).
Questo “…ma cosa vuoi che sia una canzone…” potrebbe sembrare un lavoro acerbo, a tratti forse un po' retorico e disilluso ma, allo stesso tempo, avvolto da una genuinità, da un’ingenuità affascinante. Qui probabilmente si nasconde il vero Vasco, il Vasco cresciuto in un paesino di montagna, il Vasco che non aveva aspettative da mantenere, mentre, nei lavori che verranno, al Vasco più spontaneo si sostituirà gradualmente ma inesorabilmente l'Übermensch, l'icona Vasco Rossi, con risultati non sempre piacevoli.
Concludo ritornando all’incipit del testo: molti album d’esordio, a mio parere, meriterebbero di essere riascoltati con più attenzione. L’origine del mito - piaccia o non piaccia, Vasco lo è - ha sempre un chè di attraente. Nei primi lavori si può scorgere il divenire e si possono scovare tesori nascosti.
A mio parere "...ma cosa vuoi che sia una canzone…" rientra di diritto nei primi 5 album migliori del rocker di Zocca.
Per il resto, fate voi...
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