Parlando di Vic Chesnutt è impossibile non menzionare l'avvenimento che sconvolse la sua esistenza. A 19 anni, mentre guidava totalmente sbronzo, fu vittima di un incidente che lo condannò a essere paraplegico per il resto della vita. Una vita, che, tra l'altro, era già cominciata con il trauma dell'adozione. Il sinistro stradale compromise in parte anche l'uso delle braccia e delle mani, tanto è che, guardando qualunque video delle sue esibizioni live, si nota nitidamente che poteva suonare solo un limitato numero di accordi ricorrendo a una diteggiatura "particolare". E per chiudere il cerchio riguardo quest'avvenimento c'è da dire che il nostro Vic non riuscì mai ad accettare serenamente la sua condizione di menomazione fisica che il destino gli aveva imposto, cosa testimoniata dal percorso autodistruttivo che si autoinflisse. Infatti, egli continuò ad abusare di alcol per molti anni e tentò il suicidio più volte, riuscendo nell'impresa (impresa...) "soltanto" il 25 dicembre del 2009, esasperato anche dai debiti accumulati per le cure a cui doveva sottoporsi, purtroppo privo di assicurazione sanitaria, a causa dei pochi guadagni ricavati dal suo ruolo, a dire il vero scomodo, di musicista di culto.

Personalmente ho scoperto Vic Chesnutt con la canzone "Coward", mentre ero seduto durante una mattina d'inizio estate su un paracarro a pensare agli affari miei (chissà se qualcuno capirà questa mia citazione...). Un blues-rock nero come la pece, arrangiato a mò di marcia funebre e che vede alternarsi momenti di tensione trattenuta ad altri di rabbia vomitata a perdifiato, con chitarre elettriche affilate come scimitarre e tamburi che battono impetuosi. Senza dubbio è una delle sue canzoni più potenti. Essa è contenuta nel suo ultimo disco, "At the Cut" (pubblicato nel settembre del 2009, quindi tre mesi prima del trapasso). Al riguardo di quest'ultimo posso dire con ferma convinzione che non è da tutti congedarsi dalla vita con un disco-testamento così ispirato, da non sembrare il frutto di un artista che sapeva di avere i giorni contati. Come quel "North Star Deserter" del 2007, in "At the Cut" è messa in mostra un'evoluzione sonora e di "scrittura" che stupisce se si va a ritroso fino al principio del suo cammino artistico.

Principio che è dovuto a un colpo di fortuna (ed è un po' ironico definirlo così...). Infatti, mentre Vic "si faceva le ossa" nei club della sua Georgia, accadde che Michael Stipe, che si avvicinava proprio in quegli anni a una fama di portata mondiale, assistette a una sua esibizione, rimanendone così colpito da far sì che gli fosse concessa l'opportunità di registrare un primo mucchio di canzoni prima che fosse troppo tardi. E così nacque "Little", pubblicato nel 1990, ma registrato nel 1988. Cantato da quella voce lievemente nasale così dolente e così riconoscibile, con brani essenziali, smunti, ridotti all'osso da un'urgenza insopprimibile, che si reggono sulla sola chitarra acustica, brutalmente strimpellata da Chesnutt, con qualche inserimento di armonica e di chitarra elettrica, e nei quali già si rivela una contemplazione vivida della morte, del suicidio, della sfortuna e di tutto ciò che appartiene al lato più drammatico della vita.

Tuttavia, che Vic fosse portato rapidamente ad evolversi lo dimostra già il successivo "West of Rome", oggetto di questa mia recensione. Pubblicato nel 1991 e ancora nobilitato dalla produzione di Michael Stipe, si presenta con canzoni arrangiate in maniera decisamente migliore, con una strumentazione più ricca e variegata. In definitiva, è un disco meno "naif" e "lo-fi" del precedente e più maturo e ragionato.

E non a caso sgorgano già alcune canzoni tra le migliori della sua ventennale carriera. A cominciare da quella title-track che procede lenta e trasognata, sulle ali di una melodia appena accenata dal pianoforte e squassata nel finale dall'urlo liberatorio di Chesnutt. Una canzone straordinaria, che rivela la Georgia non come un luogo dolce e incantato da rimpiangere presentato da Hoagy Carmichael in "Georgia On My Mind", ma attraversato da un'umanità irrequieta e dolente. E "Florida", con un pianoforte stentoreo che sorregge la canzone e dove ritorna il tema del suicidio trattato in maniera meno cruda rispetto a quella "Bakersfield" contenuta nel disco antecedente. E ancora "Where Were You" che si distende piacevole e orecchiabile con un ritornello che si memorizza facilmente e che rivela una vena "pop" che cinicamente il cantautore non approfondì, se non in qualche altro singolo pezzo (tipo "Strange Language" in "Is the Actor Happy"). O anche "Sponge", che si ingoia come sciroppo amaro con quel sottofondo di archi afflitti e con quel testo che esprime la rassegnazione di un uomo che è consapevole che in questo mondo e in questa vita non ci sono possibilità di redenzione. O ancora "Withering", dolcissima e delicata, forse da un punto di vista prettamente musicale la migliore del lotto, con quella coda strumentale che si libra lievemente sulle ali di uno splendido amplesso tra più chitarre elettriche. E potrei parlare anche di quel folk cameristico graziosamente imbellettato che è "Soggy Tongues" o, tra gli outtakes, dell'inquietante, oscura "Nathan", dal ritornello marcato e potente, cantata, tra l'altro, benissimo.

Ma mi fermo qui, perché penso di aver già detto tanto. Non resta dunque che ascoltare la vasta produzione di un grande cantautore che ha passato una vita intera a flirtare con la morte, corteggiandola e temendola allo stesso tempo, e che ha avuto comunque la forza di lasciare un'eredità duratura nel mezzo di questa valle di lacrime, nonostante la sua anima non abbia mai smesso di sanguinare sin dal primo giorno da paraplegico.

Post scriptum: Da quella mattina sul paracarro a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti. Grazie di tutto e per tutto, Vic. La tua musica mi è cara come poche cose.

Elenco tracce e video

02   Withering (04:28)

03   Sponge (03:32)

04   Where Were You (04:44)

05   Lucinda Williams (02:47)

06   Florida (04:28)

07   Stupid Preoccupations (03:21)

08   Panic Pure (03:05)

09   Miss Mary (03:22)

10   Steve Willoughby (02:13)

11   West of Rome (05:01)

12   Big Huge Valley (03:00)

13   Soggy Tongues (03:29)

14   Little Fugue (02:07)

15   Nathan (03:32)

16   Where's the Clock? (02:23)

17   Latent/Blatant (03:20)

18   Flying (03:12)

19   Intro (00:30)

20   Dying Young (04:37)

21   Confusion (06:09)

22   Shippin' Out (02:08)

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