Avevamo lasciato Rick Tomlison tre anni fa, perso nelle sue derive folk psichedeliche, un po’ Fahey, un po’ freak rock, un po’ raga indiani duri e puri, e con un nome diverso (Voice Of The Seven Woods, personale disco dell'anno nel 2007). Lo ritroviamo ora con un progetto più corposo, che, in rispetto del leggero cambio di ragione sociale, abbandona i toni lievi del precedente disco immettendo in circolo dosi estreme di elettricità.
10 tracce totali di cui 5 strutturate come un unicum strumentale, coi pezzi che confluiscono uno nell’altro; poderosi assalti rock psichedelici talmente perfetti nel loro essere retrò da far quasi storcere il naso. L’iniziale “Kommune” è talmente intrisa di effluvi tardo psichedelici, fra folk elettrificato west coast e tribalismo Amon Duul II, che si sfiora la necrofilia. Ed è questo labile confine fra mero citazionismo e sentito omaggio l’elemento discrimante nell’ascolto del disco; dipende dal livello di conoscenza/abitudine al genere.
Fortuna che da metà disco in poi la varietà delle soluzioni aumenta: ci si riposa nella gentile oasi folk bucolica di “Dry Leaves”, si rimane letteralmente ipnotizzati dal caracollare stordente, fra Calexico sotto peyote e Red Crayola in astinenza dallo stesso, di “Dalalven”, fino alla atipica ballata finale “Disappearances”, incrocio di aromi da zeppelin acustici, mischiati con toni da primo progressive, ritrovandosi intenti a guardare un fiore gigante che sembra tanto Peter Gabriel prima maniera.
Giù il cappello per le due tracce più lunghe. “Cylinders” parte coi Tangerine Dream alla volta di Alpha Centauri, ma finisce col precipitare in una caverna pleistocenica in compagnia di nostri progenitori armati di chitarre, bonghi e qualche spinello. “Set Fire To The Forest” parte a razzo come “Mother Sky” dei Can fino a che un wah wah ENORME non esplode a metà pezzo, trasformando tutto in un delirio tribal hendrixiano lanciatissimo verso l’oblio del rumoroso finale.
Disco revisionista dell’anno.
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