Lo Sciamano è tornato. Che la Cerimonia abbia inizio:

polvere negli occhi, mani alte al cielo

Partiamo da una constatazione: certi accostamenti (country-folk e dark-wave, tanto per intendersi) non sono così scontati, anche se oggi ci sembra una cosa naturale, e David Eugene Edwards, fin dai tempi degli indimenticati 16 Horsepower, è uno che questa sorta d'incrocio l'ha reso grande.

Da sempre in bilico fra tradizione americana ed ossessioni ereditate direttamente da un certo post-punk d'oltre manica (Joy Division in primis), Edwards raccoglie degnamente quella che fu l'intuizione di Jim Morrison, per poi confluire nel filone che ha visto vegetare nella sua corrente nomi illustri del rock più o meno recente, a partire da poeti maledetti del calibro di Nick Cave e del tardo Michael Gira, per abbracciare infine le sonorità di formazioni come The Cult e perfino i paladini del dark-rock desertico Fields of Nephilim. Non dimentico, il Nostro, che il rock nasce pur sempre dal dolore, e più precisamente dal disperato blues dei neri, di giorno schiavi nei campi di cotone, di notte aspri cantori intenti a dare sfogo alle loro afflizioni.

Archiviata l'elettrizzante esperienza con la band madre, da un po' d'anni a questa parte Edwards ama muoversi sotto le sembianze di Wovenhand, regalandoci gemme di un rock che pensavamo in via di estinzione: dall'omonimo album del 2002 al qui presente “The Threshingfloor”, ultima fatica discografica targata 2010, il santone Edwards si fa autore di una musica pazzesca, che odora di deserto, che si ammanta dei colori della notte. Dotato di un timbro vocale caldo e vibrante, di un magnetismo e di un carisma degni dei più grandi del rock, di una poetica allucinata che, nonostante il professato credo cristiano, richiama il fanatismo del predicatore, la vista lunga del pellerossa, le allucinazioni del Morrison più visionario, Edwards è un invincibile cowboy all'inseguimento dei suoi fantasmi. E non ci dispiace immaginarcelo come la comparsa ideale, accanto ad un memorabile Johnny Depp, in quel capolavoro filmico di Jim Jarmusch che risponde al nome di “Dead Man”.

Un film western girato in bianco e nero, onirico, poetico, pervaso da ossessioni lynchane, infestato da presenze demoniache e visioni psichedeliche, è l'immaginario che sembra richiamare la musica del progetto Wovenhand. Accantonata l'irruenza elettrica del buon predecessore “Ten Stones”, la formazione confeziona questo superbo “The Threshingfloor”, che va magistralmente a recuperare la vena più maleddettamente cantautoriale del suo autore, il quale non manca, tuttavia, di tributare gli influssi meccanici di una certa dark-wave da cui ha saputo attingere fin dagli inizi della sua carriera, ed un afflato lisergico che dona magia alla sua musica in ogni sua piega.

Nei frangenti più movimentati (la tarantolata title-track) come nei passaggi più mestamente crepuscolari (l'affossante “Singing Grass”), Edwards sembra calarsi in un mood apocalittico che non lo allontana più di tanto da una certa strana forma di neo-folk, che, a partire dal monumentale “Black Ships Ate the Sky” dei Current 93, ha saputo prendere piede e contaminare di soprannaturale un'ampia schiera di cantautori vaganti per questo sconsolante terzo millennio. E non è un caso che l'album veda i suoi natali proprio agli Absinthe Studios di quel Robert Ferbrache, già collaboratore ai tempi dei gloriosi 16 Horsepower, ma che meglio ricordiamo quale colonna portante dei temibili Blood Axis di Michael Moynihan.

Neo-folk, blues, cantautorato, southern rock trovano così un (in)credibile incrocio nella mente visionaria di Edwards, nella cui musica, oltre lui stesso, rinveniamo quarant'anni di grande cultura del rock (e non è un caso nemmeno il fatto che si celebri un'insigne entità degli ottanta come i New Order con lo stravolgimento di “Truth”).

Arpeggi che sanno di blande cavalcate lungo la frontiera, di fiumi da guadare per la propria salvezza, di riti capaci di resuscitare i morti. Percussioni etniche, canti mantrici che “esoterizzano” un rock nella sua forma basilare (chitarra, voce, basso e batteria), ma efficace in ogni suo desolante passo: una musica “fottutamente fottuta” che strega al suo passaggio, semplice e diretta come il tracciato di un treno che percorre fumante il deserto, ispirata come il canto di un solitario che vaga, senza meta alcuna, nelle infinite lande d'America, fra i campi di grano e l'occhio vigile di Dio. Un viaggio da compiersi dal tramonto all'alba, guidati dal drammatico canto di Edwards e dalle dolenti note della sua chitarra; un incubo in cui colpa e redenzione copulano irrequiete, e che trova il suo culmine nei fraseggi notturni, per l'occasione elettro-acustici, della ottenebrante “Behind Your Breath”; un cammino che osa affondare nell'elettronica desertica del breve intermezzo “Wheatstraw” e che trova una fuga distensiva nella sola conclusiva “Denver City”, scanzonato rock'n'roll dagli umori pseudo-glammeggianti (???), che richiamano direttamente il fantasmagorico Bolan dei T-Rex.

I dodici pezzi, seppur ripetitivi, sanno ammaliare grazie al loro procedere ipnotico, una ritualità ricercata e fortemente voluta dal carismatico singer, che evidentemente ben conosce i comandamenti del rock ed è in grado di snocciolarli sapientemente in una sorta di rosario delle tenebre percorso da ossa e teschi. Ma se un difetto bisogna trovare, quello è il fatto che i pezzi finiscono per concludersi troppo in fretta, lasciando un vuoto dannatamente pesante da sopportare, quando invece avrebbero potuto ciascuno durare un quarto d'ora ed oltre. Ma per chi fugge in questa vita sempre più futile e frenetica, i tre quarti d'ora abbondanti di “The Threshingfloor” costituiscono la finestra ideale per affacciarsi su un mitico e fascinoso mondo pregno di misticismo, sapori arcaici e conflitti biblici.

Per tutti gli orfani di “The First Born is Dead”. Buona resurrezione.

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