E' sempre difficile per un giovane come me descrivere in poche righe un album di rock progressive senza incappare nel rischio di essere troppo banale; essendo questa a mio parere la forma più alta della musica contemporanea. Premesso ciò, per accostare l'orecchio al rock progressive (ma non per coglierne i momenti più alti) e per iniziare a studiarlo, non credo che i King Crimson, padri di questo genere (che necessitano già un'adeguata conoscenza intellettuale in materia), siano il gruppo più adatto. Gli Yes sono forse il gruppo che per il sound maggiormente rappresenta l'accostamento dei due termini "rock-progressivo" ed è per questo che voglio iniziare la mia carriera di recensore parlando di quello che considero il loro capolavoro assoluto (non me ne vogliano i fans di "Close to the edge").

"Fragile" per l'appunto è il quarto album degli Yes e il secondo in ordine temporale (siamo nel 1972) all'interno della trilogia delle loro pietre miliari: un album in cui il gruppo raggiunge già la piena maturità del sound progressivo e nel quale si notano con grande appagamento dell'ascoltatore le grandi qualità tecniche e strumentali e le grandi capacità vocali di Anderson. Inoltre è da esempio per la storia del rock come tutti gli strumenti riescano ad incastrarsi sinfonicamente fra di loro e come le voci che si sovrappongono creino una straordinaria coralità (che sarà poi il tratto distintivo del gruppo) .

Tema centrale del disco è la "natura", che nel corso del disco si evolve, alternando fasi più frenetiche ed esplosive a momenti più rilassanti, fino ad arrivare al cuore del Sole. L'album si apre con "Roundabout", che oltre ad essere uno dei cavalli di battaglia degli Yes, credo sia uno dei migliori singoli degli anni '70: il brano si apre con pochi accordi di chitarra acustica per poi subire un'accelerazione improvvisa ed inaspettata che corrisponde nel testo all'esplosione della natura in una vallata, in cui il protagonista, in veste di un Orfeo che risveglia ciò che lo circonda con il suo suono, attende la sua amata; riff di organo e chitarra si alternano alla melodia principale con un favoloso intermezzo di mellotron che riprende l'introduzione. Insomma non ci sono parole per descrivere come questa canzone trascini subito nell'atmosfera progressive.

Si prosegue con un ritmo più disteso nella seconda traccia,"Cans and Brahms", un rifacimento della quarta sinfonia del noto compositore, dove è l'organo di Wakeman a farla da padrone. "We have heaven" è il classico esempio di sperimentazione dell'intreccio corale di voci (come spiegavo prima), con la frase "Tell the Moon-dog, tell the March-hare" che si ripete per tutto il brano come base, e su di essa si sviluppano i notevoli acuti di Anderson,creando stavolta un quadro naturale più idilliaco-onirico che si contrappone a quello movimentato di "Roundabout".

E come la quiete prima della tempesta, ecco che in "South side of the sky" il rumore del vento anticipa uno slancio che proietta subito l'ascoltatore verso l'alto in un background celeste, dove alla chitarra di Howe segue un intermezzo di organo di Wakeman e il classico gioco di cori; quasi a voler giustificare il passaggio ad un piano superiore, "metafisico". Siamo nella parte centrale del disco e come a voler prendersi una pausa, il gruppo presenta un piccolo brano concept di 37 secondi, "Five per cent for nothing", cioè la quota percentuale degli agenti sui proventi del disco, molto divertente.

Ed ecco che siamo arrivati a "Long distance runaround" (e la sua diretta appendice strumentale "The Fish"), altra super hit del gruppo che li ha resi famosi agli occhi del grande pubblico, e forse il brano più conosciuto degli Yes per chi seguiva le classifiche decennali di Billboard 70. Difficile attribuire un genere a questo brano: qualcuno ha parlato in altra occasione di musica classica da clavicembalo, ma all'orecchio essa sembra suonare una fusione di rock blues, progressive e reggae, che da la sensazione di una corsa con la mente verso il passato. E nuovamente a preannunciare il cataclisma, ecco un bellissimo brano di chitarra acustica, "Mood for a day", uno dei miei preferiti per la sua semplicità e capacità di distendere i nervi (certo non posso paragonarlo a "Horizons" dei Genesis).

E a chiudere un capolavoro del rock come questo non può che esserci una canzone decisamente progressive, "Heart of the sunrise", che è a mio giudizio non solo la migliore del disco ma una delle migliori canzoni degli Yes. Ci vorrebbe un romanzo per descrivere tutte le sensazioni che questo brano riesce a trasmettere, ma mi limito a dire che la linea guida è un viaggio con la mente nello spazio circostante sovrastato dalla luce del sole. Il brano inizia con un potente riff di chitarra di Howe accompagnato da pause di organo,seguite da una linea di basso,batteria e una spirale di chitarra che mi danno un qualcosa di Floydiano delle origini. Il brano quindi continua ad esplodere in tutta la sua potenza fino all'intermezzo vocale di Anderson in cui l'atmosfera, molto "calda", si placa, per poi tornare ad erompere in tutta la sua potenza con un tempo totalmente diverso dalla fase iniziale. Insomma magistrale.

Per apprezzare questo disco e più in generale il progressive, non è strettamente necessario comprendere i testi delle canzoni (che sono generalmente molto descrittivi), ne soffermarsi sulla tecnica degli strumenti, ma bisogna ascoltare e riascoltare (magari anche chiudendo gli occhi), per ricevere dall'organicità del suono delle sensazioni che a mio parere solo tale genere riesce a trasmettere. Ho sempre considerato il progressive come l'impressionismo, la poesia del rock e credo che molti concorderanno con me.

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