...ma proseguiamo, se possibile, la quantomai interessante discussione suggerita da un mio intervento sui Nirvana e "Nevermind". Spiritello polemico, anche in questo caso...? La solita, scontata tiritera contro Cobain & soci, magari rimpolpata da un ulteriore estenuante "track by track"...? Assolutamente no. Mi ha colpito però il motivo della "rilevanza generazionale della musica", del fatto cioè - senza fare sociologia spicciola - che un solo disco possa, senza volerlo, diventare il simbolo di una generazione intera. Parliamoci chiaro, la MIA generazione un "Nevermind" non ce l'ha avuto e non ce l'ha tuttora; ha avuto, si, dischi in cui potersi identificare, dischi il cui ascolto ha spronato molti (me, per esempio), a prendere in mano uno strumento anche soltanto per - patetico, ridicolo - spirito di emulazione. Ma fenomeni di quella portata, a 20 di distanza, non se ne sono riscontrati. D'altra parte, se devo proprio essere sincero, il mio giudizio sulla mia generazione (e sul suo modo di fruire della musica) non è un giudizio positivo: la sindrome da download compulsivo permette di avere tutto e di non ascoltare una cippa, l'incapacità dei nuovi giovani di "ascoltare" musica - più che "distrattamente sentirla, fra una cosa e l'altra" - è un dato di fatto di portata mondiale. Ed è inutile che si discuta su questo.

Ma, detto questo: siamo proprio sicuri che la funzione "sociale" della musica sia definitivamente estinta? Se anche non è dato di trovare qualcosa di paragonabile all'influenza avuta da una "Smells Like Treen Spirit" sull'immaginario giovanile (cattiva influenza...? Non sta a me dirlo), ci sono universi interi di cui poco, troppo poco si parla. Non che non se ne parli affatto, d'altra parte sarebbe impossibile vista l'abbondanza di spazi dedicati alle musiche d'ogni tipo. Ci si sta però a crogiolare nell'eterna nostalgia del passato, sempre a dire "eh ma prima era tutta un'altra cosa", c'è la saccenza spocchiosa di chi dice "prima sì che con la musica cambiavamo il mondo, voi adesso che cazzo cambiate, bamboccioni?", e di fatto non si va avanti. Si entra in un circolo vizioso e non se ne esce. 

A questo punto io, con l'arroganza dei miei 24 anni ma senza invidia verso nessuno - perché nell''87 sono nato e nulla cambierà questo dato di fatto - dico che, oggi come oggi, di un "Nevermind" non me ne farei nulla, un "Nevermind" neppure lo chiederei in comproprietà a chi mi ha preceduto. Perché mi bastano (e mi avanzano, per non gettare nel cesso la musica dei "miei tempi") alcuni gruppi nati dalla fine dei '90 in avanti; poi non so se sono gruppi capaci di prendere allo stomaco, di "entrare e spaccare tutto" (com'è bello certo linguaggio da "Rolling Stone", che ve lo dico a fare), di ispirare un'ipotetica generazione Y, X alla seconda, X al quadrato o come vi va di chiamarla; ma sono gruppi che una storia (non semplicemente la LORO storia) la stanno scrivendo, anche se lontano da MTV, anche se senza internet e la stampa specializzata non ne avremmo mai sentito parlare.

Le Mothers giapponesi sono uno di questi gruppi: se vi serve una band (ma quale band...? "Collettivo" è termine più esatto, pur se ancora parziale) capace di rievocare la libertà totale dei Dead, il chitarrismo post-rivoluzione hendrixiana in tutte le sue forme e sembianze, la sana godereccia artigianale ignoranza dei migliori Krauti, è loro che bisogna - assolutamente - andare ad ascoltare. Perché non è nostalgia, non è revival, non è rimettere in piedi un fantoccio sgonfio e privo di vita; non è, il loro, il goffo tentativo di ibernare decrepiti archetipi di matrice "sixties" e "seventies"; è un'affermazione, un potente statuto di totale anarchia creativa, è un non-progetto fatto di tanti progetti e infinite diramazioni stilistico-musicali, una grande, numerosa FAMIGLIA che ruota attorno ad Atsushi Tsuyama e, soprattutto, al cervello-pensante di Makoto Kawabata: chitarrista-drogato perso-musicista visionario, tutto in egual misura. "Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso UFO", "Acid Mothers Gong" (con tanto di "riesumazione" di Daevid Allen e Gilli Smyth, naturalmente), "The Mothers Of Invasion" (allusione fin troppo sfacciata per essere spiegata), "Pink Ladies Blues", "Cosmic Inferno" sono solo alcune delle tante incarnazioni di questo essere informe (discografia disordinata e interminabile, ma anche questo fa parte del gioco - eh).

Senza pretese di completezza, e senza quel dettaglio informativo che potrete trovare altrove (sarà uno spasso perdersi fra simile abbondanza di dischi), vi presento qui questo bizzaro incontro Germania-Giappone che ha avuto luogo nel 2007, con bassista e chitarrista delle Mothers affiancati - certo che si può dire - da un pezzo di storia: Mani Neumaier, il batterista dei Guru Guru. In quest'ora di musica "interstellare" se ne sentono - e se ne vedono, data l'incontenibile potenza evocativa del disco - di tutti i colori. Un ripescaggio di lusso (la lunatica e mai dimenticata "Bo Diddley" estratta di peso da "Hinten" dei Gurus), dieci minuti di corrosive contorsioni per chitarrra e basso ("Stonerrock Socks"), un'infinita "Bayangobi" in cui c'è da godere di tutto (momenti cosmici, jam per chitarra, assoli totalmente casuali di batteria, una nenia finale da monastero buddista che si insinua fra basso e piatti che stordiscono); i due minuti di "For Bunka San", "piccola sinfonia del cazzeggio" per rumori vari, e la "navigazione" quantomai incerta di una title track in cui si passa dai Gong a Hendrix attraversando territori sterminati (imperdibile Tsuyama al flauto, in apertura).

A tutti i signori nati negli anni '80 (dopo l'85, magari): anche la musica dei "nostri" anni sa dire qualcosa (molto più di qualcosa).

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