Scrivere la tua primissima recensione iniziando con quello che, a conti fatti, reputi il tuo disco preferito, il tutto nel giorno in cui cade il venticinquesimo anniversario della sua pubblicazione. Facciamolo.

Seattle, primissimi anni ‘90. Se avete fatto i compiti a casa, la vostra mente starà già viaggiando verso nomi e suoni protagonisti di quella scena grunge che, in quel preciso periodo, viveva il suo momento di massimo splendore. Nonostante alcune pietre miliari del genere già presenti sul mercato e nelle classifiche, al tavolo dei grandi c’era ancora un posto riservato agli Alice in Chains che nel 1992 rilasciano Dirt, secondo full lenght della band capitanata dal duo Staley-Cantrell, un disco nel quale riversare tutti i propri demoni.

La copertina dell’album prepara l’ascoltatore alle tredici tracce che verranno, un viaggio nel deserto dove sfumature rosso e arancio fanno da padrone, uno scenario desolato nel quale una figura femminile si abbandona alla nuda terra svanendo un po’ alla volta, forse l’immagine perfetta per rappresentare la dimensione di abbandono nella quale viveva il biondo frontman, figlio di una tossicodipendenza che giocò un pesantissimo ruolo nelle liriche del disco ma ancor di più nella sua vita, terminata prematuramente dieci anni dopo.

Dirt è un platter dai suoni graffianti e lisergici che per circa un’ora costringe l’ascoltatore a vestire i panni di qualcuno che, ormai impotente, chiede aiuto ma senza riceverlo; l’abuso di eroina e i dilemmi dell’animo sono alla base delle decadenti liriche di questo disco e altrettanto disperate sono le musiche. La voce di Layne Staley, protagonista assoluta dell’opera, cambia registro a suo piacimento spaziando liberamente tra le emozioni (negative) supportata a dovere dai cori del chitarrista Jerry Cantrell che, oltre a rendere effettiva l’armonizzazione a due voci che è trademark della band, mette a servizio la sua sei corde dalle sonorità acide. Completano il pacchetto la solida batteria di Sean Kinney, efficace anche nelle parti più sincopate, mentre lo Spector di Mike Starr emette graffianti ruggiti giù nel regno delle basse frequenze. Gli ingredienti ci sono tutti, il disco può partire da qui in poi sarà un crescendo ma solo in termini qualitativi perché alla fine, in fondo al buco, vi sentirete così piccoli.

Le danze vengono aperte da “Them Bones” dalla strofa angosciante ma che col ritornello sembra quasi voler rasserenare chi ascolta ricordandogli quale sia l’unica vera destinazione (gonna end up a big ‘ol pile of the bones). Segue una strafottente “Dam That River” per poi sfociare nella psichedelica “Rain When I Die”, una semi-ballad dal riff ossessivo che racconta di un amore tormentato (could she love me again, or will she hate me?). È il turno della schizofrenica “Sickman” per poi arrivare alla toccante “Rooster”, dedicata al padre di Cantrell reduce del Vietnam, un brano apparentemente pacifico in apertura ma con un ritornello esplosivo accompagnato da una delle migliori performance al microfono da parte del frontman. “Junkhead”, come suggerito dal nome, è un viaggio nella mente di un tossico (you can’t understand a user’s mind but try with your books and degrees). La titletrack “Dirt” esprime appieno la disperazione di Staley (you use your talent to dig me under and cover me with dirt) dondolando l’ascoltatore col suo gusto arabeggiante. Si torna a sonorità più aggressive con “Godsmack”, veloce e quasi divertente, e “Hate to Feel”, dalla vena blues e la cadenza zoppicante. Cio che segue, è un tridente di chiusura che vale da solo l’acquisto del disco, lo dico con buona pace delle precedenti tracce. A pochi passi dalla fine, Dirt tira fuori dal suo arsenale tre perle assolute per concludere il viaggio nel baratro e per conquistare quel posto al sopracitato tavolo dei grandi.
Angry Chair” cattura con un’intro paranoica per poi sfociare nella sua litania alla quale contrapporre un secco pre-chorus e concludere il tutto con un ritornello più spassionato. La sanita mentale viene abbandonata del tutto tra parole oscure (candles red I have a pair, shadows dancing everywhere, burning on the angry chair) e suoni ipnotici sporchi di effetti. Dopo la ragione, è tempo di perdere anche le ultime speranze, “Down in a Hole”, fiore all’occhiello del platter, strazia gli animi e lacera le carni, una ballata a due voci per ammettere la propria sconfitta ad opera della droga. I’d like to fly but my wings have been so denied, un grido che oserei definire generazionale, parole che chiunque potrebbe prendere in prestito. L’ultimo atto è affidato a “Would?", il cui giro di basso in apertura è tanto iconico quanto il riff iniziale di quella “Smells Like Teen Spirit” che fece la storia l’anno precedente. Un brano disarmante e nervoso destinato a diventare il brano più famoso degli Alice in Chains che pone in chiusura quell’immortale domanda finale (If I Would, could you?) urlata contro il mondo. E poi il silenzio.

In definitiva, Dirt è un album nero e denso come la pece, un’esperienza sonora soffocante che rappresenta in pieno una corrente musicale che nel giro di qualche anno sarebbe definitivamente scomparsa. Ad un tassello di storia come questo, assegnare un voto sarebbe quasi irrispettoso, mi limiterò a levarmi il cappello (per l’ennesima volta) e a far ripartire il disco da capo. Invito chi legge a fare lo stesso.

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