Pietra miliare del grunge riconosciuta all'unanimità e sicuramente il lavoro massimo dell'intera (e tumultuosa) carriera degli Alice in Chains, Dirt rappresenta un affascinante editto dell'autodistruzione del cantante Layne Stanley, anche se nel 1992 non si era automaticamente associato l'apologia crepuscolare del disco con la dipendenza alle droghe. Pace, in fin dei conti l'opera d'arte non necessariamente deve attingere dal biografico, invece l'album, lontanissimo da fascinazioni di facciata ed effettismo opportunistico, era l'urlo disperato di un uomo prigioniero dell'inferno psicotropo, ma allo stesso tempo l'involucro della sua stessa anima oscura, poiché senza simili esperienze probabilmente Dirt non sarebbe mai nato, o non sarebbe stato così.

Ma andiamo avanti, rock e dannazione vanno a braccetto da secoli, c'è piuttosto da chiedersi per quale motivo abbia deciso di recensire un disco che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti... o forse sì? Ammetto di aver sempre nutrito un grande affetto per il cd, complice una sbandata per il genere mai del tutto sopita, come dimostra aver riascoltato, appunto, Dirt 25 anni dopo e aver ritrovato un disco ancora incredibilmente godereccio, avulso da parametri temporali e intriso di quell'energia mistica degna dei veri capolavori. Ancora non siamo però arrivati alle motivazioni della rece: ora che ci siamo finalmente liberati di tutte le sfumature morbose assortite quello che rimane è la mera musica, e qui arriva il bello. Mi sono sempre chiesto in effetti perché Dirt mi piacesse così tanto, tanto da ascoltarlo in soluzione continua, e senza mai neanche pensare al tasto skip. Ho letto un po' di tutto sul disco, che è doloroso, oscuro, inesorabile e disperato. Da ascoltare a piccole dosi, ma necessario. Ebbene, io non ho mai provato cotali impulsi. Al netto dei testi effettivamente pesanti, il disco si muove in un equilibrio quasi perfetto tra spirito metal e fascinazione pop, dove tutti hanno il loro spazio, inclusi special spesso sensazionali. Si tratta di uno spazio ovviamente delineato dalla voce peculiare di Layne Staley e le curiose impalcature in chitarra di Jerry Cantrell. Ma c'è un grande rispetto di fondo nei confronti dell'ascoltatore, quasi un affetto empatico, che non rende l'ascolto mai deprimente o insostenibile.

A mio parere è questo l'elemento di Dirt che non è mai stato sufficientemente evidenziato, partendo dalla bellezza dei suoi refrain, accattivanti senza mai sfociare nella ruffianeria. Squarci di luce accecante colpiscono senza preavviso molti brani, con Staley che ha sempre una soluzione melodica avvolgente e straordinariamente enfatizzata per dare un'identità decisa alle canzoni. Se escludiamo la travolgente e potentissima Them Bones, tracce come Junkhead, Angry Chair e la struggente Down in a Hole non vedono l'ora di arrivare agli ispiratissimi ritornelli per ammaliare l'ascoltatore. Mentre Rain When i Die espone addirittura un lato progressive della band, con gli strumenti che si prendono tutto il tempo per esprimersi prima di lasciare il campo a Staley, dipingendo un universo dalle tinte fosche. Semplicemente fantastica, ma contro ogni aspettativa la migliore rimane ancora oggi Rooster, l'unica ballad distensiva del disco, ovviamente nel pieno spirito del gruppo e che sorprende addirittura con cori blues, ma non nell'ispiratissimo refrain ascensionale con chitarre e voce a piena potenza, una vera apoteosi. Staley canta che vorrebbe volare, ma le sue ali sono tarpate, e tutto il disco riflette questo spirito di redenzione e caduta nelle tenebre. Non ci sono brani minori o filler in Dirt, caratteristica che sarebbe già un mezzo miracolo per l'industria discografica, e quando la cupa Would? chiude bruscamente in un sordo delay allora sì che è il trauma si fa doloroso, è il silenzio a essere insostenibile.

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