C'è una piccola, nuova Roma che si fa strada reduce dai boom economici e pronta finalmente di potersi interrogare su se stessa, libera di respirare di nuovo, di pensare e di riflettere all'interno della nuova epoca in corso. Da quei quartieri piccolo-borghesi finalmente escono figli che hanno potuto studiare, permettersi il lusso di dedicarsi numerosi alla propria musa, o almeno di poter seguire le proprie passioni. Da queste borgate emergono due ragazzi coraggiosi, sensibili e pieni di talento. Sono giovani semplici, anni luce lontani dai loro coetanei stranieri, dai loro idoli di cui provano a risuonare le canzoni a casa, dopo la scuola. Sono amici per la pelle, complementari l'uno all'altro. Antonello Venditti suona il pianoforte da molti anni, ha una voce cristallina e una poeticità popolare, volgare ma per questo vera, affronta gli amori ei problemi in faccia, è un piccolo eroe romantico che si scontra di petto contro ogni scoglio, incurante di dubbi, doppi sensi, ambiguità. Francesco De Gregori è un Tonio Kroger che vagabonda leggero con la sua chitarra, gioca con le parole sui suoi delicati arpeggi, ha una voce ancora acerba, indecisa, ma è quello che rischia di più, sperimenta senza paura sulle proprie sicurezze. Le storie che raccontano sono diverse, ma tratte dalla stessa vita. Ognuno ha la sua lente d'ingrandimento. Venditti osserva una donna nelle serate passate nelle cantine a fumare, desidera amore e libertà, incespica sui rami spezzati mentre solitario cammina lungo i viali imbiancati dall'inverno. Sfida la realtà, s'interroga sui valori dell'uomo moderno, si chiede sulla politica e fiduciosamente sembra aderirvi (vedo una stella, meglio seguirla).

De Gregori non sa parlare come il compagno di amori e sentimenti diretti, o almeno non vuole: preferisce piccoli ritratti impressionistici di disturbati di mente, preti, ubriaconi, enigmatiche signore che lo affascinano e lo lasciano in preda alla voglia di sogni, poesie, confessioni al vento e al cielo.
"Theorius Campus" è un vivaio della musica italiana, dove i due esordiscono e si presentano. Venditti è già al suo apice, per chi lo ama la bellezza di queste prime composizioni è innegabile. “Roma Capoccia” è il ritratto più inflazionato ma incantevole di una metropoli, la sua. Nessuno sa apprezzare, amare la caput mundi come Antonello, è per lui naturale l'identificazione tra la propria vita, la donna amata, e la città in cui egli vive amando quest'ultima. Quanto s’è grande Roma quann’è er tramonto, quanno l’arancia rossegia ancora su sette colli, e le finestre so tanti occhi che te sembrano di’quanto s’è bella... Solo pochi altri artisti come Pino Daniele con Napoli o Jannacci e Gaber per Milano si sono talmente votati a darci una così infatuata immagine del luogo d'appartenenza. La canzone è una cavalcata tra le bellezze della città immortale (quasi una guida turistica all’amatriciana) su cui la magia della chitarra di Francesco unita al solenne piano dell’altro conferisce aria di epicità e di promessa di fedeltà. Questo cavallo di battaglia riesce comunque a passare (se è mai possibile) quasi inosservato vicino all'invettiva a difesa dei giusti, dei poveri e dei più deboli di "Sora Rosa", manifesto di impegno e ironia casereccia (Chi c'ha gli occhioni sani ci dirà venite giù all'inferno armeno c'avrete er foco pe' l'inverno). Le canzoni d'amore sono impeccabili, sentite, coinvolgenti, tra falsetti che presto saranno abbandonati dal cantante e suite quasi progressive che nobilitano anche i racconti più spogli (ma inavvicinabili alla successiva famosa banalità vedittiana). De Gregori giovanilmente inquieto, passa dal ritratto quasi paesano-bucolico di "Signora Aquilone" alle allucinazioni suggestive di "La Casa Del Pazzo", il dark-folk di "Vocazione 1 e 1/2" (nella tua stanza sotto il ritratto di Sturzo il crocifisso ti faceva l’occhiolino... che lingua parla l‘agnello che oggi morirà...) fino alla pura evasione beat di "Little Snoring Willy", in un inglese scimmiottato ma molto divertente. È comunque quando i due amici non si limitano a suonare l'uno per l'altro ma cantano i pezzi assieme che si raggiunge l'acme del progetto: due visioni che sembravano non amalgamabili come olio e aceto si uniscono e come per miracolo sembrano incredibili, perfette, sublimi e mature. "Dolce signora che bruci" è il ritratto di una donna di mezz'età che oltre alla bellezza sta perdendo la propria famiglia, i “cari geranei“, i vecchi album di foto: "l'amante prezioso" se n'è andato da un'ora e alla donna non rimane più niente se non lacrime e specchi rotti. E le due voci tornano in quel che è forse la vera gemma dell'album: "In mezzo alla città" è l'insuperabile simbiosi dei due talenti, un livello di poesia eccezionale. Sottofondo, solo la chitarra folk di De Gregori.

Venditti inizia la storia (Strade di case grigie di neve sporca te ne vai… sono le otto la Standa è già chiusa e il mio letto ti dice ciao) di un amor appena finito tra le vie di Roma. Le reazioni e i destini della coppia sono diversi, e mentre Venditti si immedesima nel ragazzo (io sono sempre più solo, ed intorno la mia città... cravatte di seta di povera gente che vive dentro al metrò...), De Gregori canta sovrapposto a lui la voce della nuova vita della ragazza (). La ragazza si meraviglia che proprio nei luoghi dove aveva vissuto col vecchio compagno possa risvegliarsi una mattina, bevendo il caffé con un nuovo uomo. Il protagonista invece si perde tra meravigliose istantee del passato (una vestaglia, vini di Creta, dischi di Leonard Cohen... le mie canzoni, le mie scenate, comiche di Charlot...). L'amore vecchio se ne va, pur tra dolorosi ricordi, una vita nuova chiude il delicato racconto e ci lascia commossi e coinvolti.
Questi ragazzi non sanno ancora niente del loro futuro, non sanno che - in modi diversi e a volte quasi opposti - diventeranno gli eroi di una generazione, non sanno che milioni di giovani penderanno dalle loro labbra per anni, per decenni, per sapere le loro opinioni, per farsi guidare da loro. Se l'affetto tra i due preziosi amici non morirà mai, la strada musicale dei due si separerà drasticamente, sempre di più, fino a rendere le due carriere quasi imparagonabili. Venditti qui era già un artista completo e sicuro del proprio grande talento, ma dopo meno di un decennio farà svanire quasi tutte le proprie qualità creative, pur restando protagonista commerciale dell’Italietta più sdolcinata e di poche pretese. De Gregori si lascerà sempre più alle spalle questa iniziale fragilità, e si rafforzerà sul proprio impegno, sul suo compito di riscrivere la poesia canora dell'Italia più intellettuale.
Due eroi del nostro tempo, ancora a gattoni, che giocano con la storia e con i loro idoli (magnifica la copertina senza neanche i nomi dei cantautori ma solo con l'Ofelia preraffaellita di Millais, chissà con quali curiose similitudini personali) e ci consegnano "Theorius Campus". Che il romanzo della nuova musica italiana abbia inizio.

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