Ho ascoltato centinaia di dischi free jazz, talvolta emozionandomi, talvolta incazzandomi. Anche le musiche più ostili possono essere solo noiose. Ma raramente ho provato la paura, quella sensazione che fa scorrere una sanguisuga dalle gambe su fino al collo. Ecco cosa si prova nelle quasi due ore di questo oggetto misterioso, piombato da un'altra dimensione fino nelle nostre orecchie.

Kimio Mizutani riemerge dalla fogne di Tokio dopo dieci anni di oblio e solitudine e lo fa mostrando al mondo tutte le sue cicatrici, le sue paranoie ed i suoi incubi più neri. In questo trio improbabile l'unico filo conduttore è la scarnificazione, il gioco al massacro, l'esibizione di un profondo vissuto umano a contatto con arcani demoni sepolti nella mente.
Il sax tenore di Doyle rutta ed erutta, impazzito, prendendo a spallate la sezione ritmica di Toyozumi, fredda e marziale, tanto che i due da soli sembrano portarsi sulle spalle il cadavere del jazz.

Ma il buco nero è altrove. La chitarra di Mizutani è su un'altro pianeta. Dimenticatevi il free jazz, prendete piuttosto le escursioni soniche verso il nulla dei Rallizes Denudes, mischiatele con una vita vissuta sottoterra in completa solitudine e avrete la liquefazione, il ponte invisibile sotto il quale rimbombano ancora i fischi di Kaoru Abe e le minacce politiche dei Rallizes. Esplosioni di feedback che sembrano ricordare osceni rumori industriali, agghiaccianti silenzi, urla dal buio.
Poi Doyle passa al flauto, nella satanica "Love Heal"-, puntinata da angosciosi rimbombi di chitarra fischiante e percorsa da una specie di fremito elettrico. Ad un certo punto la voce di Mizutani, roca e funebre, simile a quella di un diavolo medievale, singhiozza dall'oscurità, emette lamenti da camera delle torture, trasformando il pezzo in un lento e inesorabile viaggio nelle nebbie, tra momenti di stasi assoluta - che fanno veramente venire i brividi - e urlacci estatici. Il pubblico in sala applaude timidamente, come se.avesse paura di scontentare Mizutani. La sensazione è di sopraffazione, come se da un momento all'altro Mizutani potesse tirare fuori un coltello e sgozzare qualcuno dei presenti, a caso.

Se Doyle è luciferino, instabile e incendiario, Mizutani però è sfatto, sconfitto, liquefatto, in un perenne stato di veglia ansiosa. Sembra un suono senza direzione che di volta in volta si fa fischio, sibilo, stridio, urlo, bordone, eruzione lavica, metallo. Se fosse un sax direi Kaoru Abe dopo un elettroshock. Sembra il suono di un uomo che non dorme da dieci anni, in perenne stato di confusione. Eppure è rock, micidiale mostruoso e tremante come quello dei Rallizes, sebbene sfatto e totalmente perso. I pezzi sono lunghi o lunghissimi, tenuti assieme soltanto dai respiri di Doyle e dai tamburi di Toyozumi, che comunque sono due anilami selvatici e quindi non pensate che le spine siano solo sul capo del giapponese. A tratti potrà persino sembrare che Mizutani sia stato invitato a fare da gregario, e pure non che non ne avesse una gran voglia.

Poi arriva la bordata. "I'd Live In Her World, Then Without Her In Mine" inizia con un timido pretesto post bop che ben presto si disfa in una mutazione genetica chitarristica tra il godzilla sound degli High Rise e i lamenti di Jandek circa periodo elettrico. Una rincorsa all'assoluto, uno spaccato psichiatrico direttamente dalla mente di un reduce, di uno che tra accuse di terrorismo, infamate della critica e anni di solitudine sembra aver fatto musica solo attraverso i suoi incubi e i suoi disastri.. Insinuo pure che del messaggio orginale sia rimasta solo la tipologia degli strumenti impiegati e che tutto sia stato abilmente orchestrato da qualcuno che ha voluto "sfruttare" - passatemi il termine - la fragilità psicologica di Mizutani per metterlo alla berlina mostrando tutto il brutto più brutto. Sembra persino che questo trio sferragliante usi le grammatiche jazz come un puro pretesto per fa sfogare Mizutani davanti ad un pubblico di cavie umane, una specie di circo dei freaks dove chi è più malato e brutto fa più ridere e vendere più biglietti. Una pistola alla tempia del buon gusto, un vero e proprio disastro free, concepito e suonato giusto prima di risprofondare nell'oblio e sparire nel sottosuolo di Tokio.

Per alcuni un capolavoro espressionista, per altri una vomitata, per altri ancora una nuova via verso diverse dimensioni. Per me Mizutani rimarrà nella leggenda, a metà tra un Gesù Cristo delle fogne e un internato, umano e troppo umano, troppo strano per questo mondo. So però quanto sono importanti queste esperienze, perchè quando guardiamo l'abisso che sono gli altri, è quell'abisso che guarda noi, disvelandoci la verità.

Maneggiate con cautela.

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