L’esordio di Beck nel 1994 fu un duro colpo da assorbire, anche per un periodo fecondo ed eterogeneo come quello di un decennio fa. L’approdo sul mercato americano di questo svedese tuttofare lasciò incantati i già spaesati ascoltatori del tempo, che in balia tra le ultime cartucce del grunge e le nuove sortite di punk-revival, emo, britpop, trip-hop e molto altro non sapeva in che direzione rivolgere i propri orecchi. Arrivò così dal nulla “Mellow Gold“, inquietante frullato pasticciato ad arte tra passato e presente come la stramba creatura che anima la copertina allucinata e quasi luciferina. Un mix tra un robot dotato di tutto, pene compreso, e un antico teschio di animale unicornato. Dietro, uno stranito biondino con occhiali da aviatore ed aria da incompreso. Sarà invece una scoperta bellissima scartare il mondo magico, deformato, senza pace ma quieto, in cui veniamo trascinati al rallentatore.

“Loser” arieggia già a suon di manifesto, la gioia apatica di esser perdenti ed esserne orgogliosi. Un sottofondo neo-folk macchiato di elettronica, effetti bizzarri e umoristici accompagnano la nuova celebrazione dello sfigato che diventa “figo”, alla faccia di Moretti e di Penthotal. Quest’aurea di blues mutante vagherà per l’intero album, coadiuvato da un prelibato avvicendarsi di furiose sortite di elettro-metal (“Soul Suckin Jerk”) con venature gospel, folk-beat pseudo-esistenziali (“Truckdrivin Neighbors Downstairs”), ballate da piantagioni di cotone ma ambientate in un futuro prossimo (“Whiskeyclone, Hotel City 1997”), death-industrial lo-fi (“Mutherfuker”) e molto, molto altro. Il cantato gentile ci induce ad affiancarci senza timore nel lato passeggero di questo viaggio che sembra più un omaggio parodistico all’America, quel che rappresenta, da Robert Johnson a Chuck Berry, la Motown e i Byrds, fino ai Beastie Boys e l’hip-pop più ossessivo, post-moderno. Sì, perché Beck inizia da quest’opera prima il suo percorso di bizzarro menestrello post-rock, il vate che parte dal tutto per arrivare all’ignoto, a un nuovo approccio musicale che diventerà poi la moda predominante del nuovo millennio. La tendenza enciclopedica di sentirsi in cima ad una montagna di dischi, di storie, di miti, leggende, meteore e pietre miliari. La consapevolezza del potere della musica, i suoi effetti, la facoltà di diffondere una melodia attraverso i continenti, la possibilità di farsi intendere da tutti parlando una lingua babelica. Quel che Beck faceva diventerà poi quel che siamo adesso, un ripescaggio continuo dal passato, una gara a chi compone il puzzle più colorato e meglio incastrato, fondendo generi, con tanti paroloni-accozzaglia che ci confondono. Beck non ne ha bisogno di categorizzazioni, sta un passo avanti agli altri solo perché adora quel che fa, senza rilevanti strategie, solo folle amore e dipendenza dall’arte. Una volta che la Bentley corre veloce e il nostro fa il pazzo, noi inizialmente diventiamo timorosi… saremo finiti nel viaggio giusto? L’album in effetti dopo averci fatto minimamente abituare alla propria strana veste si apre subito a ventaglio, e sforna la sua parte migliore. Parolacce, paranoie amorose, poesia sui tramonti, sul buio, i fari spenti nella notte di mogoliana memoria, puzzo di piedi e spiritosaggini. Dolcezza. Quell’infinita amara dolcezza di “Steal My Body Home”, una preghiera, una supplica, la “There Is A Light That Never Goes Out” degli anni '90. Sguardi persi nello specchietto, qualcuno snocciola la coda acustica con archi di “Blackhole”. Veniamo esortati a svegliarsi, ma a farlo piano, come in un rito voodoo che agisce anziché sul lato fisico su quello psicologico. La voce di Beck mastica parole bofonchiando sentimenti veri, ci sentiamo a pancia piena, gli occhi lucidi. In questo cristallino incanto, dopo un ultimo giro dentro una lavastoviglie a forma di ottovolante torniamo di fronte a casa nostra, e ci commuoviamo.

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