Chiedo scusa se già vi racconto come va a finire ma l'unico colpevole di questo CAPOLAVORO è Tony Iommi.

Perché di capolavoro si tratta, anche se pochi ve lo diranno, ma andiamo con ordine e partiamo dai suoi compagni d'avventura. Ian Gillan proprio lui, l'ex-Purple, arruolamento 'impossibile' dopo la fuga di un altro pezzo da novanta come R. J. Dio, non solo affermerà di aver firmato coi Sabbath in preda all'alcool (ma chi ci crede che uno come lui apponga firme senza tre avvocati al seguito?), ma rincarerà la dose confessando di aver vomitato vista la copertina e ascoltato il prodotto finito, con “quell'orribile basso che sommergeva tutto”. Geezer Butler, il proprietario di quell'orribile basso dirà sostanzialmente le stesse cose, confessando di non essersi sentito troppo motivato ad andare in tour, mentre al batterista Bill Ward sarà bastato semplicemente tornare alla base dopo i problemi di salute degli ultimi due anni - il barile rimane a Iommi che forse ha rinnegato solo l'utilizzo del Sacro nome.

Disco che è ascolto obbligato per chi pensa che i Sabbath più pesanti di sempre siano quelli di Ozzy: mettetelo su e basterebbe la plumbea “Zero The Hero”, ma scoprirete anche come si suona heavy blues a temperatura di fusione (“Keep It Warm”), come si tira fuori il lato più demoniaco da un cantante ormai dato per spacciato e che prima, semmai, si era limitato a qualche urlo al limite dell'isteria (“Disturbing The Priest”, ispirata alle lamentele di un vicino parroco durante le sedute di incisione), o ancora come si suona al limite dello speed senza perdere un grammo di classe (“Thrashed”). La vera perla del disco è però quella che gli dà il titolo, lento con un Gillan da pelle d'oca e gli altri tre che non sono da meno, vero classico misconosciuto.

La copertina copritela...

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