Più il tempo si disperde, più sintetizzo le mie memorie.
Appena la lancetta dell’età è andata in direzione del numero 22 il passato ha cessato di essere una sequenza di anni distinti e funzionalmente correlati tra loro. Nel guardarmi indietro vedo per lo più istantanee nebulose di ricordi che si stemperano in un insieme omogeneo: la prima scopata, il primo 30 e lode, la terapia, la prima sbronza, la morte di mia nonna.
Una contemporaneità da interpretare, un futuro precario da affrontare e valori semantici da attribuire alle succitate istantanee: la musica dei Brand New è sempre stata questo per me…qualcosa ai limiti della consecutio temporum.

Quell’incessante battaglia tra il diavolo e Dio, datata 2006 e destinata a fare proselitismo tra gli epigoni che ne conseguirono, fu per me un detonatore che deflagrò ogni idealismo adolescenziale lasciandone per strada i detriti.
Jesse Lacey, classe 1978, oggi padre di famiglia, adepto dichiarato di Morrissey e animo mesto sospeso tra fede e eresia, riuscì nell’impresa di realizzare un opus in cui composizioni scarne e stratificate, la cui ossatura si regge su riff di semplice resa tecnica e immediata assimilazione, furono in grado di generare un impatto emotivo ipertrofico in continuo divenire, guadagnando smacco anno dopo anno in quanto a longevità d’ascolto.

Se Deja Entendù (2003) chiuse definitivamente la tomba dell’emocore di seconda ondata, modernizzando le atmosfere melanconiche di Elliott e Sensefield, “The Devil And God Are Raging Inside Of Me” reinterpretò i canoni del genere dal principio distruggendone ogni archetipo, tra l’altro in un periodo dove la saturazione della proposta aveva annichilito ogni sforzo di genuinità, azzerando la sperimentazione e prediligendo la reiterazione dei medesimi luoghi comuni (urla posticce, basi rubate al pop punk, clean vocals fanciullesche, testi da ipodotati, i My Chemical Romance e chi più ne ha più ne metta).
Allo spartiacque del 2006 seguì “Daisy” (2009) : disco minore ,forse a tratti sbagliato, eccessivamente disarmonico e caotico seppur con più di un momento assolutamente degno di nota, ma che, nonostante i difetti, sulla lunga distanza si è rivelato un momento di transizione irrinunciabile per il futuro della band. Un futuro ormai già segnato da uno scioglimento preannunciato e datato 2018, con buona pace di chi li ha sempre seguiti e amati, sottoscritto compreso.

Un ultimo spiraglio prima di perire, un’ultima testimonianza prima di abbandonarci, un ultimo disco in questa misera era di pieno revival: toni più cupi,atmosfere liquide,eterogeneità stilistica e pervasiva tendenza al citazionismo autoreferenziale. Questo è Science Fiction.

Come spesso accade in questi casi, il punto di riferimento dei Brand New per il loro epitaffio sono i Brand New stessi, con album di 2006 e 2009 a condividere 50/50 la paternità di questo ancora giovane 2017.

Lo psicodramma ha inizio: nessun assalto frontale alla Sowing Season, non sarebbe nemmeno opportuno dopo un vuoto durato otto anni. Un tappeto sintetico dai suoni cupi ed elettrici fa da sfondo al tape di una psicoterapia: una donna racconta di un suo sogno dalle atmosfere vagamente Lynchane. Persiste un delirio onirico alla “Strade Perdute” mentre il tape si sgretola lasciando spazio a campionamenti algidi e ovattati ,alle chitarre colme di chorus e alla voce di Jesse, sgraziata ma incredibilmente morbida.
C’è sicuramente meno puzza di zolfo rispetto a quando ci siamo lasciati: “Lit Me Up” sembra avere deviato la disgraziata “way to hell” verso cui Jesse era diretto in “Noro” (meravigliosa closer track di Daisy), abbracciando un mood più intimista e ragionato.

Il monolite di 6 minuti ci ha aperto il portone. Proseguendo ritroviamo una nostra vecchia conoscenza, ingiustamente soppressa in Daisy: la chitarra acustica. Plettrate solide e intense, di derivazione Neutral Milk Hotel, affiancate a mid-tempo sospesi tra emocore e alt-rock, aprono brani come “Can’t Get It Out”, “Waste”,”Same Logic/Teeth” e “In The Water”: ritornano i tributi a quel cluster di gruppi novantiani che hanno rappresentato la condizione esogena fondamentale affinché gruppi come i Brand New potessero proseguire la propria carriera: brani che sono una perfetta sintesi dell’irruenza dei Nirvana e della capacità melodica degli Sparklehorse, coadiuvata dall’ispirazione dei loro fratelli maggiori Modest Mouse.

Alle pennate ritmiche si sostituisce un giro d’arpeggio secco e essenziale che sorregge la delicatezza di “Could Never Be Heaven”, lullaby dai toni crepuscolari e dall’incedere nenioso. Ennesima reinterpretazione del concetto di Ballad che i nostri portano avanti sin da quando scrissero “Soco Amaretto Lime” nel 2001 (album:Your Favorite Weapon). Quelli di questo brano sono carezze e sussurri: non aspettatevi la visceralità in La Minore di una “Luca” con conseguente deflagrazione.

Non mancano ovviamente i momenti dove si cerca di puntare tutto sull’impatto delle distorsioni, sfruttando melodie più oscure e immediate: il frangente di un nastro chiude “Same Logic/Teeth” ("We started with psychodrama") per spianare la strada ai deliri psicotropi del Dottor Stranamore e ai presagi post-atomici di “137”, a mio avviso uno degli highlights del disco. Qui si riesumano le atmosfere di “The Devil And God Are Raging Inside Of Me” e la velenosità delle chitarre, esacerbando stilisticamente l’intensità della voce e la dinamicità della struttura ritmica, il tutto in un atmosfera visionaria. Il tiro si alza sensibilmente con “Out Of Mana” che recupera le stilettate chitarristiche e la ruvidezza degli overdrive, confezionando una traccia solidissima. Decisamente più rilassato è il catatonico mid-tempo di “No Control”, traccia di minore opulenza compositiva ma non per questo meno efficace.

A completare lo spettro sonoro vi sono anche i tentativi di rivisitare influenze assai vicine al roots-rock di metà anni 70, già tentati in Daisy ma con risultati di scarso conto, corrispondendo agli episodi più opachi di quel disco. Appena accennati nelle già citate “Same Logic/Teeth” e “In The Water”, e molto più marcatamente evidenziati in brani come “Desert” e “451”, evidenziando la capacità di saper gestire in maniera molto più oculata rispetto al passato anche sonorità avulse al background generale della band.

A chiudere il disco vi è infine lei, la cosa più vicina che, almeno in tempi recenti, io possa associare alla “canzone definitiva”: “Batter Up” è la summa, lo zenit, l’acme, l’apogeo,la vetta dell’intero disco. In quanto a closer track i nostri di Long Island hanno sempre messo a disposizione pezzi da novanta; basterebbe citare “Play Crack The Sky” e “Handcuffs”. Ma “Batter Up”, nella sua eterea e rarefatta semplicità, pesta come un macigno di granito sul cuore aperto. La struggente melanconia di una canzone intrisa di sentimento, che è anche l’ultima che con molta probabilità sentiremo dai Brand New. Il sepolcro.

Il lirismo di Jesse Lacey è meno verboso è più pacato,intarsiato da citazioni provenienti dai dischi precedenti e focalizzato su temi quali 1) la fede, meno invasato da riferimenti biblici come in passato e più consapevole di una condizione spirituale raggiunta e vicina all’agnosticismo, dando ampio spazio a critiche nei confronti delle paturnie teologiche più conservatrici (si pensi a Desert), 2) la psicologia, onnipresente in quanto fil rouge dell’intero disco, e 3) l’abbandono, condizione inevitabile visto e considerando i postulati che il disco porta con se.

Avremmo potuto aspettare altri 8 anni, avremmo potuto pazientare lasciando che l’animo riservato e introverso dei Brand New trovasse la propria intima dimensione, prima di cimentarsi in un’altra opera di questo livello, con la medesima meticolosità tipica del loro operato. E invece i giochi si interrompono qui, si sgretolano mentre sfumano le ultime note di Batter Up.
Per alcuni potrà non essere un capolavoro per via della sua indole derivativa ma,in quanto testamento spirituale di uno dei più grandi gruppi degli ultimi 20 anni (minimo),la familiarità era una “conditio sine qua non” da soddisfare. Un capo d’opera devastante senza nemmeno un riempitivo e più in generale uno dei loro migliori dischi in assoluto. Questo è Science Fiction, e scusate se è poco.

Sipario.

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