Quando questo disco arrivò sugli scaffali, nel 2009, fu spinto da una forte campagna promozionale, quasi pari a quella del grande successo planetario con, ciliegina sulla torta, la partecipazione al Super Bowl, con una esibizione mozzafiato davanti ad una marea di gente.
A parere mio questo ha penalizzato un disco che nasce in un momento tutt’altro che facile per Springsteen, alle prese con la scomparsa del suo fratello di musica, Danny Federici, straordinario organista/tastierista/fisarmonicista, con lui persino da prima della ESB.
Springsteen cerca proprio di nascondere dentro una cifra stilistica particolarmente solare, un velo di malinconia e di tristezza, che aveva evidentemente bisogno di esorcizzare: così tra i due estremi del disco, l’iniziale Outlaw Pete e le finali The last Carnival e The Wrestler, musicalmente estranee al resto, c’è un disco pop di pezzi da tre minuti l’uno, molto semplici, sia nella struttura lirica che in quella musicale, molto lontani dalla storia di Springsteen, almeno per quanto riguarda la discografia ufficiale, visto che del pop di ottima fattura questa autore l’ha sempre sfornato, come testimoniano molti pezzi del monumentale Tracks (specialmente il quarto cd) e tutto il bellissimo album The promise fatto di pezzi scartati dallo storico Darkness on the edge of Town proprio per la loro natura poco rock.
Persino la copertina, per la prima volta fumettistica, combina la “gioia” del disegno-fumetto, alla malinconia dei colori, il blu-notte dominante e lo sfondo, alle spalle di Springsteen, fatto di un cielo sì stellato, ma carico di nuvoloni che giungono a ridosso di un mare cupo e mosso: il disegno mostra un uomo dal volto disteso che accenna un sorriso, un uomo che si “salva”, con la musica più gioiosa che poteva comporre, dai moti di un’anima in difficoltà.
Il disco viene scritto di getto, in breve tempo, a partire da What love can do, composta in studio durante la registrazione del precedente Magic e subito parsa a Springsteen ed a tutto lo staff molto diversa da quanto stava per essere pubblicato: il brano è un rock sufficientemente potente, tra Tom Petty ed i Byrds, dominato dal suono delle chitarre Rickenbacker e dall’armonica che le accompagna a creare a tratti un’atmosfera richiamante certa psichedelia rock degli anni 60. Il testo parla di amore come soluzione al male, rappresentato sempre in questo disco, o dalle nefandezze della politica, come in questo brano (“Here where it’s blood for blood and an eye for an eye, let me show you what love can do”), o dai segni che il passare inesorabile del tempo lascia.
Ecco la bellissima Kingdom of days , a mio parere tra le più belle canzoni scritte da Springsteen che mai, come in questo pezzo, mette a nudo la sua fragilità fisica e lo fa con la stessa “spavalderia” con cui a venticinque anni dichiarava di voler fuggire dalla sua terra arida viaggiando veloce con un bolide su una strada che lo avrebbe portato alla terra promessa: qui la strada è ancora più lunga, è il tempo fatto di stagioni che passano ed il bolide è l’amore, potente antidoto alla tristezza. Musicalmente il brano è un tripudio di pianoforti, chitarre soft e violini che costruiscono un’atmosfera leggera, ma al tempo stesso intensa. L’intensità del pezzo si coglie forse meglio in alcune proposizioni live acustiche, chitarra ed armonica, che servono a capire meglio l’ispirazione (sempre molto alta) da cui queste canzoni vengono fuori, a dispetto di arrangiamenti che possono piacere come non piacere, a seconda del gusto personale dell’ascoltatore.
My Lucky day, Working on a dream, Queen of the supermarket, This life, Life itself, Surprise Surprise, seguono tutte il canovaccio dei due brani descritti: pop-rock con richiami alla musica degli anni 60, tra Byrds (già ricordati), Beach Boys e Beatles, attualizzati anche grazie alla sapiente produzione di Brendan O’Brien .
Tomorrow never Knows, si scosta musicalmente, essendo, a dispetto del titolo uguale a quello di uno straordinario pezzo pop presente nel capolavoro Revolver dei Beatles, un grande pezzo country, suonato in modo inedito dalla ESB, con la batteria ed il basso country, la chitarra pedal steel ed il violino campagnolo che riportano alla mente i capolavori di Hank Williams e di John Denver : anche la prestazione vocale di Springsteen è molto bella ed inedita per il tono usato. Anche questo testo parla del tempo che passa, ma qui manca l’ottimismo, anzi l’autore guarda con preoccupazione al futuro perché nel “domani non è mai certezza”. Più country di così !
Altro pezzo fuori dal ”coro” di questo disco è il blues, che più blues non si può, Good Eye, cantato nel bullet mic; il testo è greve, come la musica, parla di un uomo torvo che con l’unico occhio vedente guarda al buio, mentre l’occhio cieco guarda al sole e per questa sua incapacità “fisica” continua a commettere errori, a far del male…. potrebbe essere uno dei tanti “cattivi” che popolano il capolavoro Nebraska.
The Last Carnival e The Wrestler sono due pezzi acustici che musicalmente potevano stare bene in The ghost of Tom Joad o Devils & Dust. The Last Carnival è un brano emozionante, un lamento per voce e chitarra, con un pizzico di quella fisarmonica che era il cavallo di battaglia di Federici, qui suonata da suo figlio Jason. Il brano è il saluto di Springsteen e della ESB a Danny Federici, che qui è Billy, il proprietario del circo errante in Wild Billy’s circus story: Billy non c’è più, ma il suo circo continuerà a vivere, la ESB e la musica di Springsteen in generale, sono eterne ormai, come le stelle disegnate sulla cover del disco.
The wrestler, colonna sonora dell’omonimo film con Mickey Rourke è un vero colpo da maestro, una delle più belle canzoni di Springsteen, ballata acustica per chitarra e pianoforte, con un testo che è poesia : gli ultimi, i reietti, tornano al centro delle canzoni di Springsteen, “se hai mai visto un cane azzoppato, allora hai visto me”: quest’uomo però malgrado tutto cerca di riemergere, “io so farti sorridere quando quel sangue sbatte sul ring, dimmi amico, potresti chiedere di meglio?”.
Chiudo con quello che è il primo pezzo: Outlaw Pete, una canzone lunga, otto minuti, dall’incedere country-rock, un incontro tra Neil Young e Sergio Leone . Sul pezzo son piovute critiche feroci riguardo il presunto plagio, che non esiste a parere mio, con la famosissima I was made for lovin’ you dei Kiss. Il testo descrive attraverso la figura del Cowboy Pete tutta la vita di Springsteen, in chiave ironica. Anche qui, a chiusura del pezzo, torna la figura dell’amico perduto Federici :
“il cacciatore Dan (Danny) si presentò, trovò Pete (Bruce) in pace a pesca sulla sponda del fiume,
tirò fuori la pistola per mirare bene,
Disse: Pete, tu pensi di essere cambiato, e invece no”
Un monito, una minaccia, a continuare a vincere con l’arma della musica.
Carico i commenti... con calma