Il disco perfetto.

Oltre (parecchio oltre) ogni distinzione di genere: rock? rock ai crauti?

Fottetevene, cari miei.

Ancora un’altra pagina su questo disco perfetto.

Tago Mago è, ogni volta e per ognuno, qualcosa di diverso.

Ecco perché.

Un esilio in terra straniera: la terra di noi stessi a noi stessi estranea.

Sin dalla partenza, si fa palese l’irresistibile attrazione che la circumnavigazione dello spazio interiore porta con sé: “You just can't get back no more”, ripete in guisa di monito l’invasato Damo.

Il paradigma del viaggio —si potrebbe persino dire— in musica. La direzione, come sempre nella musica, è verso l’interno, non verso il mondo. Perché, lo si dice apertis verbis, “You can make everything what you want with your head”. Proprio così.

Abbandonata la comodità del conosciuto, ritrovata alfine la scomodità dell’ignoto come propria: questo il senso del viaggio.

Il suo vero motore è la ripetizione.

Il ritmo ossessivo.

Forza centrifuga e forza centripeta, in precario equilibrio.

Un viaggio di sette tappe.

Ogni parte del percorso, come in un organismo vivente, finisce proprio dove comincia quella successiva, e fa tutt’uno con essa.

Anche nello sfociare della pura e semplice distruzione d’ogni ritmo, il viaggio ha una direzione.

Cos’abbiamo dentro, se non caos e ordine intrecciati a formare un congegno?

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