Piaccia o meno, in quasi venti anni di carriera Chan Marshall ha sempre messo in primo piano la propria (volatile) personalità, rispetto ad aspettative del pubblico e atrocità alla moda. Che poi possa essere un po' fuori di testa puo' anche darsi, visto che le testimonianze in questo senso si sprecano: ore di solitarie strimpellate di chitarra in mezzo ai boschi, concerti fatti di canzoni iniziate e bruscamente interrotte, interviste (im)possibili, senza considerare il corollario di esaurimenti nervosi ed eccessi alcolici. Davvero non si è fatta mancare nulla, pero' a chi scrive - a fronte dell'ottima musica prodotta - va bene cosi'.

"Sun" (lavoro dalla genesi assai travagliata: le prime registrazioni sono del 2007...) è a un primo ascolto il disco della "svolta elettronica", che poi (superato un primo necessario sconcerto) non è cosi' radicale come sembra.  Certamente con Philippe Zdar (metà dei Cassius) alla produzione, batterie elettroniche e synth giocano un ruolo importante. Ma i toni sono sulla falsariga di quelli chiaroscurali dell'ultimo disco di materiale originale (quel "The Greatest" che aveva confermato la maturità artistica della nostra); i semplici accordi di piano - pur rivestiti da arrangiamenti di modernariato electro -  sono ancora li'; e soprattutto c'è ancora "quella" voce, capace di veicolare emozioni come poche se ne sentono in giro.

Accade così che all'interno del disco (e spesso nella stessa canzone) elementi di continuità e di rottura si mescolino fra di loro: la title track (la cui melodia è letteralmente immersa in un bagno di elettronica) è forse il momento più emblematico del nuovo corso; ma già il singolo "Ruin", unisce la cadenza frenetica del piano con tentazioni danzerecce, e altrettanto accade nella filastrocca "3,6,9 " il cui avvio abbastanza canonico viene stravolto dall'uso abbondante dell'Auto-Tune sui cori finali (e non siamo poi tanto distanti da territori r'n'b). Altrove si va a colpo sicuro con cupe meditazioni ("Human Being") aggiornate all'uso minimale dell'elettronica ("Manhattan"). Ci si poteva risparmiare i quasi 11 minuti di "Nothing But Time" (con tanto di capatina di Iggy Pop sul finale) oppure un episodio abbastanza prescindibile come "Silent Machine", ma la cifra stilistica di Chan Marshall è racchiusa qui: la disinvoltura con la quale si è avventurata in territori musicalmente estranei al suo background rivela l'opera più personale e coraggiosa della sua carriera. Alcuni episodi potranno anche annoiare, ma difficilmente suoneranno falsi.

"If I die before my time, bury me upside down" canta Chan Marshall nel ritornello di "Cherokee" (febbrile discesa agli inferi il cui umore funereo è parzialmente nascosto dal vivace arrangiamento). L'augurio è che continui a comunicare, forse a esorcizzare - attraverso la musica - le paure e le delusioni che ne turbano l'esistenza.

Carico i commenti... con calma