Quando ho deciso di ascoltare questo disco di Cat Power, al secolo Chan Marshall, ho provato a dimenticare la bellezza del precedente "You Are Free". Per quanto possibile ho cercato di liberarmene e fare tabula rasa dei ricordi presenti nella mia mente, perché non volevo che l'ascolto venisse condizionato dalle mie aspettative. Volevo semplicemente provare a prendere le cose per quello che sono, cercando di vivere appieno il gusto della scoperta con rinnovata ingenuità. Ora posso dire d'aver fatto bene, perché proprio l'ingenuità sembra il sentimento che più si addice all'approccio con questa musica, dove non troviamo sofisticazioni, effetti speciali o colpi ad effetto, ma solo un pugno di canzoni a tratti delicate, nostalgiche, dolci, soffuse, altre volte amare, frementi, impalpabilmente graffianti, ma in grado di lasciare sempre un segno significativo. Come accade nella ballata introduttiva che dà il titolo all’album: "The Greatest". Lievemente il pianoforte e la chitarra preparano l'ingresso della voce che arriva soffusa, un po' sofferta con un retrogusto romantico. C'è qualcosa di limpidamente dolce nella musica, grazie al supporto degli archi e della chitarra, che sembra ricordare il verso di un gabbiano in lontananza; ma si avverte anche un contrasto amaro, un contrasto che cattura e conquista.

La prima impressione di questo inizio caldo e vellutato è dunque quella di una malinconica e amara dolcezza tratteggiata dalla sensibilità femminile di Cat Power. Questa riaffiorerà di tanto in tanto durante tutto l’ascolto, supportata da accenni sottili di fiati indolenti e sinuosi ("Lived In Bars"), violini country ("Could We"), una languida pedal steel ("Islands"), seconde voci in sottofondo ("Willie") o ancora dall’emozionante e fragile tristezza della voce di Chan Marshall ("Where Is My Love"). Intensa e matura lungo tutto il percorso dell’album, è capace di accennare e far convivere un’elegante sensualità e con una sofferenza profonda. Ma non mancano momenti di tenore differente, che rappresentano un contraltare energico in grado di ravvivare l’ascolto. "Living Proof", ad esempio, è più vitale, anche se nasconde tra le trame una sussurrata anima blues; "Lived in Bars" ha un ritmo più deciso e venature soul, esaltate dall’Hammond sullo sfondo, mentre "After It All" è fatta di disincantata ironia e serenità. Inoltre sono evidenti in diversi passaggi alcune influenze rhythm & blues e non mancano cenni folk, evidenziando una cura particolare nel definire gli arrangiamenti del disco con pianoforte, archi e fiati a far da contorno all'anima di Chan Marshall. Ma alla fin fine forse la canzone più bella del disco è la più semplice di tutte: "Hate". Chitarra e voce, una rabbia contenuta che sembra sempre sul punto di scattare in avanti, lasciando presagire una reazione, che non arriva, vissuta sul filo del rasoio: un'affascinante, vaga e inquieta sensazione di tensione repressa.

Ed è questa in fondo la sensazione più forte che mi ha regalato l'ascolto di questo bel disco, che, per profondità e maturità artistica, spicca positivamente fra le prime uscite di questo grigio inizio d’anno. Poi non so quanto questo giudizio possa essere condiviso. Molto dipenderà dalle vostre attese o dal vostro stato d’animo. L'unico consiglio che vi lascio allora è: non pensate troppo, ascoltatelo lasciandovi andare.

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