Solitamente descrivere con un modesto punto di vista, dischi impegnati e sofferti come quelli che molti esponenti della canzone d’autore di casa nostra, ci hanno propinato nei “seventies“, non è particolarmente semplice in quanto la decriptazione di alcuni testi, risulta assai faticosa e talvolta tediosa, ma allo stesso tempo affascinante. In questo caso il buon Claudio Lolli, uno dei cantautori più schierati, sfornati in quegli anni pesanti e confusi, ci propone un linguaggio più scurrile e molto chiaro, rispetto ai suoi più celebri amici e colleghi e ciò rendono ascolto e interpretazione delle parole, agevoli e dirette, il che tutto possa dileguarsi con una fluidità più celere.

La dignitosa e onorabile carriera del bolognese Lolli, inizia nel 1972, grazie all’ausilio del “compagno di merende” (e di bevute) Francesco Guccini, che lo suggerisce con pieno merito alla EMI, con questa riflessiva e ombrosa perla d’autore e con la quale omaggia con la title track, l’omonima opera teatrale di Samuel Beckett e la converte a modo suo narrandoci dell’ansia di chi lascia scorrer l’esistenza, costantemente prigioniero di un’attesa snervante di qualcosa che non arriva, o meglio, di chi “non” vive e getta alle ortiche le proprie ambizioni e non ha mai afferrato il momento giusto per godersi l’attimo di serenità. L’amarezza è palese nell’ultima strofa: “Non ho mai agito, aspettando Godot, per tutti i miei giorni aspettando Godot, e ho incominciato a vivere forte, proprio andando incontro alla morte” e la consapevolezza di un tormentato non-sense all’esistenza, riaffiora anche ne “Il tempo dell’illusione”.

Il clima dell’album non è dei più leggeri; Lolli ci accompagna mestamente in un viaggio tra le varie e diverse paranoie ideologico-esistenziali, ove primeggiano in brani come “L’isola verde” e “Angoscia metropolitana”, quella viva e cupa realtà del mostro cittadino, dentro cui si vive e si sopravvive costretti e rassegnati, vittime di un degrado più umano che urbanistico nel quale addirittura “Giace morto sul selciato un bambino che faceva il muratore“. In altri pezzi come “Quello che mi resta”, “Quanto amore” e “Quando la morte avrà”, il vivido sentimento viene descritto con una cappa di marasma e osticità, nella quale riemergono rimorsi, attese infinite e sensazione di altro tempo sprecato a elargire inutilmente pezzi di amore contenuti in quella valigia che ognuno si porta appresso.

L’autocelebrazione e l’autocommiserazione di due amici di fronte a una bottiglia di vino, svelano in “Quelli come noi”, l’intimismo di un intera generazione di diversi, solitari, nichilisti, timidi, sognatori, ambiziosi, silenziosi, inutili e che in un turbine di mera e ingenua misantropia “cantano quello che non hanno e quello che gli resta” (chissà che il signor Rossi da Zocca, 9 anni dopo non abbia preso spunto da qui per la sua “Siamo solo noi”). Ma il riscatto sociale tenta di rizzare le antenne, tirando in ballo una vecchia e piccola “Borghesia”, non sempre criticandola ferocemente, ma denigrandola e mettendo in evidenza le sue frustrazioni, le sue dottrine obsolete e i suoi limiti ideologicamente reazionari, anteponendola a tratti aspramente, alla massa civile più snobbata. “Michel” è il compagno d’infanzia francese, complice di una pura amicizia, che va oltre il confronto tra Garibaldi e Napoleone e oltre le fasulle guerre tra i soldatini di piombo. Una complicità che si colma nel giorno dell’addio del “cugino” d’oltralpe, che torna in Patria dopo la scomparsa della madre e che resterà scolpita nella coscienza di entrambi.

In copertina è raffigurata la banconota da 5.000 lire dell’epoca, (qui a lato si vede per metà e la custodia del vinile aprendosi la mostra per intero), in cui al posto del faccione di Cristoforo Colombo, c’è l’espressione rassegnata e svilita di Lolli. Non si può negare musicalmente l’ispirazione “dylaniana”, ne tanto meno quella poetica “gucciniana”, ma a torta finita, con scioltezza, semplicità e professionalità interpretativa, ne esce, senza l’utilizzo forzato di batterie e bassi in ogni brano, uno dei più interessanti e validi manufatti artistici cantautorali di quel periodo, che merita ampio voto. Claudio Lolli spiana così la strada ai successivi lavori, toccando a mio parere, un punto così alto solo nel 1976 con l‘album “Ho visto anche degli zingari felici”.

E’ un peccato davvero che un artista di questo calibro non abbia avuto la stessa considerazione di altri della sua generazione (ce lo caghiamo in pochi purtroppo, per dirla schietta). Sarà perché, la sua coerenza gli ha permesso di non vendersi troppo? Qualitativamente inferiore? Poco pubblicizzato? Ognuno tragga le proprie conseguenze. La realtà è che indifferente del proprio blasone, continua dopo 40 anni a cantare, scrivere libri, collaborare, promuovere iniziative socio-culturali, intensificando il tutto con spettacoli e apparizioni sui palchi, spesso a scopo benefico. E a chi lo gradisce, basta questo per definirlo “cantautore”.

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