Clutch: l'ennesima dimostrazione di quanto la realtà delle cose debba essere sempre presa con le molle. Quando i Clutch sono sulla bocca di qualche americano, non fanno che parlarne bene, seppure (naturalmente) non tutta la popolazione a stelle e striscie sappia chi siano. Se lo stesso nome viene fatto in Italia, ma più largamente nell'intera Europa, molti (la stragrande maggioranza) non saprebbe neanche chi diavolo siano. Questo accade per quell'ormai diffusissimo fenomeno musicale (ma non solo) secondo cui "vendi se ti vendi" e sei poco conosciuto se ti presenti in maniera onesta e senza particolari budget pubblicitari.

Questo è il destino che accomuna un'infinità di piccole band odierne e che non gli permette di emergere. Un fato maligno, toccato in parte anche ai Clutch, nonostante almeno in patria (Stati Uniti, Maryland) abbiano un discreto seguito. La loro creazione è lontana ormai a venti anni fa, quando il vocalist e leader Neil Fallon decise quasi per gioco di mettere su una band di hard rock. Pian piano, con tenacia e buoni lavori (in particolare l'omonimo del 1995), il combo è riuscito a guadagnarsi quel sottile spicchio di notorietà che gli consente di mantenersi in vita. Uno spicchio che probabilmente è stato ancora più difficile da guadagnare perchè la proposta sonora dei quattro membri della band non era (non è) qualcosa di entusiasmante sotto il profilo dell'originalità.

Il loro hard rock con intaccature blues e stoner, ha avuto nel corso degli anni diversi interpreti, motivo per cui (almeno all'inizio) i nostri Clutch hanno faticato nel trovare la propria dimensione. The elephant riders, il loro terzo lavoro (1998), è un po' figlio di questa situazione. In bilico tra diverse anime artistiche finisce con l'essere non compiuto, in alcune sue parti sembra addirittura forzato. E' il caso di "Ship of gold" e "Eight times over miss october" caratterizzate dalla voce potente di Fellon ma prive di particolari spunti. E' questo il problema principale dell'album: ben costruito nel suo continuo alternarsi di riff, strofe e sound sudista, ma poco "attrattore" nella sua forma finale.

Questo terzo album è lo specchio della situazione stessa in cui è nato: una proposta di discutibile appeal alla fine degli anni '90, quando gli echi dei Nirvana erano ancora forti. A ciò aggiungete la difficoltà nel farsi largo all'interno del mercato discografico americano e capirete anche le difficoltà con cui The elephant riders ha dovuto combattere fin dall'inizio. Sebbene questo clima d'incertezza generale e sebbene i Clutch faranno molto meglio in seguito, canzoni come "The yeti" e "Crackerjack" servono a far intravedere quella miscela di groove, blues e rock che li porterà a migliori risultari nel futuro.

Per chi non li conoscesse consiglio di provargli a dare un ascolto.

1. "The Elephant Riders" (3:50)
2. "Ship Of Gold" (4:22)
3. "Eight Times Over Miss October" (4:21)
4. "The Soapmakers" (2:57)
5. "The Yeti" (4:59)
6. "Muchas Veces" (5:44)
7. "Green Buckets" (3:52)
8. "Wishbone" (3:43)
9. "Crackerjack" (5:10)
10. "The Dragonfly" (12:01)

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