Justin Vernon è quel ragazzone biondo che dallo stereo fluisce nella vostra casa e sgattaiolando vi si siede sul letto e, con ancora su la felpa col cappuccio bordeaux, attacca a cantare e a riempire gli spazi. Poi può capitare che vi prende per mano, che vi porta a passeggio nei boschi, con questi alberi smorti che fanno l'inverno, o che vi ospita nel capanno del padre, su a Nord. Lui è Bon Iver e tutto quello che può fare è vivere l'inverno. Questione anche di contorno.

La sensazione di perdersi, di guardarsi attorno preoccupati che quel rumore appena udito l'abbia prodotto un cinghiale, è smarrimento. Fuga. Smarrimento puro. La sensazione che si prova nel guardare i palazzi che sfuggono agli alberi di Hyde Park e che costituiscono Bayswater Road è strana, dalle molteplici sfaccettature. Ti senti distante, piacevolmente in disparte, ma, al contempo, presente. Assente quanto basta, ma presente appena serve. Se Bon Iver suona come una passeggiata nei boschi, i Volcano Choir sono un ubriaco che seduto su panchina cerca con lo sguardo i fanali delle macchine che percorrono la strada aldilà della recinzione del parco.

Ecco, i Volcano Choir sono Justin Vernon, meglio conosciuto come Bon Iver, che assembla musica in compagnia dei Collections of Colonies of Bees. Assemblano musica, non la suonano e in questo sta il senso di Unmap (2009, Jagjaguwar). La normale musica folk distrutta e destrutturata fino a perdere di senso, e poi riassemblata sotto la guida di un falsetto corale che ti trascina lontano. Non aspettatevi musica, non aspettatevi Bon Iver, ma solo un esperimento. Un esperimento riuscito.

L'inizio di "Husks and Shells" con quelle chitarre frammentate, il bip del metronomo e la voce che entra sinuosa è il miglior biglietto da visita per quello che Unmap contiene. "Sleepymouth", quasi sette minuti a fiato trattenuto, per paura di rovinare l'atmosfera; come dovrebbe suonare un valzer per far ballare non individui, ma colline, porzioni di mondo con ancora un po' di verde attaccato sopra. Qualcosa che a conti fatti è psichedelia tecnologicamente bucolica. Poi c'è tempo per la melodia, per una canzone - "Island, IS" - che evoca tanto la tradizione americana quando i My Bloody Valentine, in una potente delicatezza, una "Soon" dipinta ad acquerelli e "Cool Knowledge", che scandisce il tempo con uno schiarimento di voce e la melodia che ti porta a battere il piede, finisce troppo presto, uno parte troppo presto e i divertissement pure finiscono, sempre, troppo presto. Con "Still" si riprende dove Justin si era fermato: un giochino vocale di Blood Bank (2008, Jagjaguwar) che qui si trasforma in qualcosa che sfiora la maestosità dei Sigur Ros che ormai non esiste più, qualcosa che fa vibrare.

E' un esperimento leggero, soffice. La parola più adeguata per la musica dei Volcano Choir è "soffice", ecco. Tra poco è autunno e Justin c'è. Si va in giro assieme.

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