Ci sono voluti quasi quaranta anni per liberare il "prigioniero" dalla gabbia, per tornare nel luogo del misfatto e liberare la bestia, insieme alla sua insana follia. Era il 1971, infatti, quando una formazione misconosciuta proveniente dalla Gran Bretagna dava vita a "First Utterance" (1971, Dawn), uno tra i dischi più oscuri e perversi del prog tutto: la fama non arrise al sestetto che compose quel capolavoro, ma la magia di internet saprà far crescere i frutti seminati dalla band, riportandoli inaspettatamente alla ribalta.

Era il 1970 quando Roger Wootton, Glenn Goring, Andy Hellaby, Colin Pearson, Rob Young e Bobbie Watson si riunivano per dar vita ai Comus: l'intenzione dei sei musicisti era quella di dar vita ad un sound che sapesse sin da subito trascinare l'ascoltatore in un'ambientazione ben definita, circoncisa in un mood medievaleggiante ma, allo stesso tempo, sporco e malato, attorniato da litanie infernali e da morbose cavalcate tribali. Il segreto dell'originalità dei Comus stava tutta nell'innovativo utilizzo di diversi strumenti anticonvenzionali per un gruppo rock, come l'oboe, il violoncello e il tamburello, adoperati con sapienza insieme alle strumentazioni classiche ed accompagnate dalla voce "delirante" di Wootton contrapposta a quella, soave, della Watson. Il nome della band, tra l'altro, incarnava al 100% le loro intenzioni, giacché il nome Comus, nella tarda antichità, veniva associato alla personificazione semidivina del "komos", un corteo rituale sfrenato fatto di baldoria ed ebrezza, ripreso nei tempi moderni da John Milton per la sua masque.

"First Utterance" era un prodotto estremamente innovativo per l'epoca, forse troppo, e le vendite commerciali furono davvero minime: il tempo di comporre tre anni dopo "To Keep From Crying" (1974, Virgin) con una formazione leggermente differente, e la band si sciolse definitivamente. Ma si sa, il tempo è galantuomo, e l'avvento di internet permetterà alla critica e alle nuove generazioni di far riemergere i Comus dall'oblio in cui erano sprofondati, tanto da spingere i membri della formazione storica a ricomporsi, nel 2007, per una serie di esibizioni live in cui riproporranno il loro repertorio storico.

Nel 2012, la svolta: Roger Wootton e soci decidono di tornare in studio per partorire "Out Of The Coma" (2012, Rise Above Records), un lavoro che riprende gli stilemi e le tematiche del leggendario "First Utterance". Già dalla title-track s'intuisce che ci troviamo di fronte ad un ideale seguito del primo album della band, dove il "prigioniero", dopo un lungo sonno, si risveglia lentamente dal coma in cui si era auto-recluso. Da notare, in questo frangente, una sorta di ipotetico percorso parallelo tra il "prigioniero" e la band stessa, che lentamente ha cominciato a risvegliarsi dal lungo torpore per poi tornare all'azione. I tre nuovi brani proposti dai Comus racchiudono alla perfezione il credo di "First Utterance": Roger Wootton, ci trascina, con la sua voce lancinante e sofferta, nelle atmosfere cupe e malate rappresentate dalla prima traccia e da The Sacrfice, mentre The Return riporta alla ribalta il lato più romantico (se così lo si può definire) del complesso, con una ballata firmata dall'altra vocalist del gruppo, Bobbie Watson, che negli altri brani contrappone la sua voce soave a quella "nervosa" di Wootton, creando un dualismo perfetto e mai fastidioso. Ovviamente il tutto è orchestrato in maniera curata ed ispirata, in un perfetto connubio tra gli strumenti classici del rock e quelli più classicheggianti.

Ci troviamo di fronte, in realtà, ad una sorta di EP, visti che i brani nuovi sono solo 3 (per un totale di 23 minuti), i quali anticiperanno l'ascoltatore ad una storica documentazione ripescata dagli archivi della band: stiamo parlando della "suite perduta", quella Malgaard Suite che avrebbe dovuto rappresentare il successore di First Utterance, ma che, almeno in studio, non ha mai avuto luce. La registrazione, targata 1972 e registrata durante un'esibizione all'Eynsford Village Hall, ci regala i Comus nel loro miglior periodo di forma, in una lunga cavalcata demoniaca di 16 minuti che non conosce sosta, tra liriche deliranti e ritmiche sempre più demoniache; ascoltando la Malgaard Suite si amplificano ancor di più i rimpianti per un gruppo che, con maggiori fortune, sarebbe sicuramente entrato a far parte dell'Olimpo degli dei del Progressive Rock.

Ma forse ci sono già.

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