Premessa: mi accingo per la prima volta a rivestire il ruolo di recensore per Debaser mosso dal fatto che non sono presenti in queste pagine recensioni sulle opere dei seminali Current 93, gruppo che amo e che ritengo meritevole di essere conosciuto anche al di fuori di ambienti più strettamente dark, folk o industrial. Pertanto questa non vuole essere semplicemente la recensione del loro ultimo disco, che fra l’altro consiglio caldamente come primo approccio al gruppo (sia per la bellezza che per l’accessibilità che per la reperibilità, dato che con il fallimento della World Serpent la maggior parte dei loro dischi, soprattutto quelli più datati, è oramai irreperibile!), ma anche una sorta di introduzione a chi non ha mai avuto modo di incrociare la loro musica. Questo per dire che mi dilungherò un po’, contando sul fatto che chi non conosce i Current 93 sarà incentivato alla lettura per saperne di più, e chi li ama certamente apprezzerà sentir parlare di uno dei loro gruppi preferiti. Mi riprometto, in futuro, se avrò modo di scrivere altre recensioni, di essere più sintetico.
 
Dunque, per chi non lo sapesse, i Current 93 sono una sorta di collettivo musicale che ruota attorno alla figura carismatica di David Tibet, personaggio fragile e visionario, senza dubbio fra i massimi esponenti, insieme a Douglas P., Tony Wakeford e Ian Reed (giusto per citare i nomi più illustri) di quel movimento, tanto affascinante quanto controverso, che risponde al nome di folk apocalittico. 
Lasciando volentieri da parte tutte le polemiche legate alla scena, e volendomi concentrare esclusivamente sui contenuti musicali, mi rendo conto che spiegare a parole la musica di Tibet & co. non è cosa facile, non solo perché si tratta decisamente di una proposta al di fuori di ogni schema (la stessa definizione di folk apocalittico risulta restrittiva, se con tale etichetta si intende la musica di gruppi come Death in June), ma anche a causa dei frequenti mutamenti stilistici intrapresi dal gruppo lungo l’oramai più che ventennale carriera. Inversioni dettate anche da una formazione sempre mutevole e dalle frequenti collaborazioni con personaggi provenienti dagli ambienti più disparati (Nick Cave, Bjork, Douglas P., Jhon Balance, Steven Stapleton, Boyd Rice, Antony, Cosey Fanny Tutti, Bonnie “Prince” Billy, giusto per citare i nomi più di spicco).

Nati nei primi anni ottanta come pionieri di una inquietante miscela fra industrial, musica esoterica ed avanguardia (non si può non citare a tal riguardo i seminali “Nature Unveiled” e “Dogs Blood Rising”, rispettivamente dell’84 e dell’85, pietre miliari che hanno eretto gli standard dell’intero genere), il sound dei nostri si è nel tempo addolcito, tramutandosi in un originalissimo folk (chitarre acustiche, viole e flautini, per intenderci), nel quale le maggiori spigolosità sono venute a smussarsi, ma senza perdere le tinte esoteriche e le escursioni sperimentali che hanno contraddistinto il primo periodo (non è un caso che proprio Steven Stapleton, la mente del progetto industrial sperimentale Nurse with Wound, si sia dimostrato nel tempo il più fedele compagno di avventura di Tibet, sia in qualità di produttore che di collaboratore): i primi esperimenti in questo senso sono presenti nell’ispirato seppur ingenuo ed incoerente “Swasticas for Noddy” (un affascinante guazzabuglio di folk, industrial, rock, filastrocche, invocazioni, rumorismi vari), ma è negli anni novanta che si ha la piena maturità per quanto riguarda queste sonorità con opere del calibro del seminale “Thunder Perfect Mind” (92), e dei successivi “Of Ruine or Some Blazing Starre” (94) ed “All the Pretty Little Horses” (96). Con “Soft Black Stars” (siamo nel 98) il sound (dominato questa volte dal solo piano e dallo scarno poetare di Tibet) sembra ulteriormente raffinarsi, epurandosi ulteriormente dalle contaminazioni industrial/noise, e divenendo sempre più minimale ed intimistico, e tale è sembrato essere il nuovo corso dei Current 93, convinzione avvallata dal successivo, e bellissimo, “Sleep has his House” (dominato invece dall’harmonium) e dalle varie puntate di Hipnagogue, a mio parere meno convincenti. Naturalmente la mia è una ricostruzione che semplifica di molto il percorso intrapreso dai nostri, poiché imprevedibile e ricca di inversioni è stata la storia di questo gruppo, che con estrema libertà ha saputo toccare i generi più disparati, non solo l’industrial (da citare anche “Imperium”, “In Mestrual Night” e “Christ and the Pale Queens might in Sorrow”) e il folk (bellissimo l’EP “Tamlin”), ma anche approdando ai lidi dell’elettronica (“Island”), del rap/disco (“Crowley Mass”), del metal (“Lucifer over London”, “Horsey”), del noise (“Down”), dell’avanguardia (“I have a Special Plan for this World”, “Faust”) e della musica da camera.

Giungiamo così al 2006, anno di uscita di questo “Black Ships Ate the Sky”, album che si affaccia sul mercato dopo anni di silenzio e in cui ci siamo ritrovati fra le mani una miriade di bootleg e registrazioni live più che evitabili; anni privi di novità rilevanti e che ci hanno fatto seriamente temere un incombente stasi creativa dell’artista. Il fallimento della World Serpent, e le voci di scioglimento in seguito ad una folgorante quanto repentina conversione di Tibet alla dottrina  cristiana, con conseguente rinnegamento di tutto il materiale sfondo esoterico del passato, completano il quadro. Insomma c’era davvero da preoccuparsi, ma fortunatamente le nostre preoccupazioni si sono rivelate prive di fondamento: Tibet è tornato, ed il suo è un ritorno alla grande! Abbandonate di fatto le ermetiche introversioni dell’ultimo periodo, il disco prende le distanze dalle tendenze minimali di capolavori quali “Soft Black Stars” e “Sleep has his House” (che, seppur ricche di fascino, a lungo andare avrebbero potuto stancare anche le orecchie meglio disposte e più allenate) segnando un brusco ritorno a quelle sonorità di inizio anni 90, ed in particolare ripescando quelle intense e visionarie ballate acustiche che brillavano in lavori come “Thunder Perfect Mind” ed “Of Ruine of Some Blazing Starre”, i due veri punti di riferimento per comprendere questo tomo (non è un caso che oltre al fido Stapleton, sia stato coinvolto il redivivo Cashmore, la chitarra da cui sono sgorgate le più belle melodie del periodo folk). 
La prima cosa che colpisce è la varietà e l’eclettismo, data anche dalla quantità di ospiti chiamati a dare il loro contributo. E la mente va al primo dei due album citati, proprio quel “Thunder Perfect Mind” che ad ascoltarlo pare di sfogliare un album di famiglia. Adesso come allora Tibet si è contornato di parenti e persone care, vecchi e nuovi amici: rispondono così all’appello conoscenze di vecchia data come gli storici Marc Almond e Cosey Fanny Tutti, ragazzuoli e discepoli come Antony (lanciato dallo stesso Tibet) e Bonnie “Prince” Billy,  e personaggi di altri tempi, riesumati da chissà quale scantinato, come Baby Dee e Shirley Collins.
Da “Of Ruine of Some Blazing Starre”, invece, sembra essere ereditata l’atmosfera da viaggio spirituale, in cui le diverse canzoni, pur brillando di vita propria, costituiscono tasselli di un mosaico, concorrendo a creare un qualcosa di  maggiormente profondo e composito. Un flusso onirico in cui l’ascoltatore viene condotto per mano lungo i paesaggi interiori che costellano l’animo tormentato del singer, intento a compiere il suo personale percorso di redenzione.
Un percorso tormentato, quindi, non certo sereno; una via tortuosa, irta di ostacoli, che non a caso parte da un’urgenza di Tibet (il tutto di fatto scaturisce da un sogno del cantautore: le Navi Nere, presagio del Male e dell’imminente Apocalisse, della Fine del Mondo e dell’Uomo, con la conseguente seconda venuto di Cristo), una necessità di affrontare i propri fantasmi e sciogliere nodi irrisolti. Una processo terapeutico, quindi, che si tinge di sfumature psicoanalitiche e spirituali, indirizzato a lui come individuo e lui come Uomo, condannato insieme al resto dell’Umanità.
Ci tengo a precisare che nonostante i temi non meritino certo un nobel per originalità, questi vengono come sempre trattati e rielaborati in modo del tutto personale, attraverso una fitta serie di immagini e simbologie spesso incomprensibili. Nonostante il significato dell’opera sia difficilmente afferrabile in tutte le sue sfumature, si apprezzano i testi, mai banali e scontati, bensì brillanti e ricchi di suggestione, che fanno trapelare profondità di pensiero ed estremo coinvolgimento da parte dell’artista.
Tibet riscopre quindi in questa sede il ruolo che più gli compete: quello di profeta allucinato ed invasato, tornando a sfoderare proprio quella componente teatrale che da un po’ di tempo si era assopita, e che adesso gli permette di passare in rassegna gli stati d’animo più disparati come se fosse in preda ad una schizofrenia incurabile: a tratti fragile, sommesso, rassegnato; altre volte autorevole, profetico, biblico; altre volte disperato e altre ancora dolce e rassicurante. Certo Tibet non è un cantante, questo va precisato. Più che cantare, recita, declama, e l’esempio più calzante, pur rimando mondi lontanissimi, pare essere il Jim Morrison di “The End” (mi si scusi per l’accostamento!) o la Nico di “Desertshore”, senza però avere le qualità canore di questi ultimi. Ma quello che può sembrare un limite, diviene anzi un punto di forza, poiché dove la tecnica sembra languire, vi sono la passionalità e la fantasia in soccorso, la capacità di cambiare continuamente registro, di suggestionare l’ascoltatore, di creare nella sua mente immagini e visioni bellissime ed inquietanti. Tutte caratteristiche che fanno il piccolo e fragile uomo dalla voce stridula e sgraziata, un personaggio unico, irripetibile nella storia della musica, un artista che parla con l’anima e con il cuore, che non si vergogna di denudarsi innanzi agli ascoltatori; un artista sincero, integro, passionale, senza compromessi, che non fa niente per farsi piacere, ma che semplicemente è. 

Dato il senso di unità che lega i diversi momenti (più che di un ascolto, si potrebbe parlare di un’esperienza), un scansione track by track sembrerebbe sconsigliata, ma poiché ci troviamo davanti ad un lavoro assai variegato (rispetto agli standard del gruppo, beninteso) e con qualche sorpresina disseminata qua e là, mi sento di fare almeno una veloce scorsa dei diversi umori in cui ci s’imbatte, giusto per dare un’idea un tantino più precisa di quello che ci proponiamo di ascoltare. Del resto non mi sembra di fare un torto ad alcuno, poiché fra le parole e le emozioni c’è pur sempre un mare, e certe non saranno tre vocaboli spesi in più a togliere suspense e pathos all’ascolto. (Di fatto il disco si presta secondo me a due tipi di lettura: una sintetica, volta alla ricezione dell’atmosfera generale dell’opera, alle suggestioni che essa provoca nell’ascoltatore (un approccio quindi passivo, mistico, e in questo senso è consigliato un ascolto durante lo stato di dormiveglia) ed una analitica, un ascolto quindi più attento, volto a cogliere l’infinità di sfumature che l’opera presenta.

Ad aprire le danze è un delicato arpeggio di chitarra acustica, che fa da soffice tappeto alla voce pulita e cristallina di un Marc Almond in stato di grazia, che, pur cimentandosi in un contesto lontano dal pop plasticone a lui più consono, riesce magnificamente a calarsi nel mood etereo ed apocalittico del disco, interpretando in modo egregio la prima parte di “Idumea”, il tema portante del disco, una canto scritto da Charles Wesley in un passato più o meno remoto, nel quale vengono poste domande irrisolvibili sul senso delle Vita e dell’esistenza dell’Uomo in questo mondo, strofa che verrà ripresa e interpretata di volta in volta dai diversi ospiti chiamati a dare il loro contributo.
Nel successivo trittico, (la quieta “Sunset (the Death of Thumbulina)”, l’incalzante “Black Ships in the Sky” e la spaziale “Then Kill Caesar”), è lo stesso Tibet a farsi carico di prenderci per mano e condurci nel suo mondo, prima in modo pacato e sommesso, poi con tensione sempre crescente: sussurri e voci pacate sono accompagnate dalle struggenti chitarre di Cashmore e Chasny (Six Organs of Admittance), che tessono struggenti melodie, coadiuvate dall’ottimo violoncellista John Contreras, che nel corso del disco dimostrerà in più di un episodio di essere un elemento imprescindibile nel sound dei Current 93 targato 2006. Si sente che siamo ancora all’inizio del viaggio, ma già si capisce che tutto si baserà su un gioco di sfumature, di particolari, di segni che andranno saputi cogliere con estrema attenzione, passo dopo passo.
L’atmosfera sapientemente costruita da Tibet viene momentaneamente interrotta dalla versione di “Idumea” di Bonnie “Prince” Billy, dominata dalla sua suggestiva voce sporca e supportata dalle note del suo banjo, strumento che solitamente non digerisco, ma che in questo frangente si rivela una scelta davvero azzeccata, suonando poco southern e avvicinandosi di molto alle sonorità di un citar indiano, conferendo al tutto una dimensione spirituale ed ascetica. Ma gli scenari sono quelli da fine del mondo, deserti e polverosi; il sole è rosso e vicino all’orizzonte, il senso di solitudine e di desolazione è palpabile.
Con “Aucustic Imperium is Nihil Reich” Tibet riprende il discorso da dove l’aveva lasciato: la tensione inizia a farsi sentire, ma è con la successiva “The Dissolution of the Boat Millions of Years” che i primi squarci di vera inquietudine trovano piena espressione: un violoncello distorto e un lento arpeggio aprono la strada alla voce deformata di Tibet, che si fa finalmente profetica e minacciosa, lontana come se provenisse da una vecchia radio, quattro minuti di vera estraniazione onirica, in cui le parole spiritate del Nostro vengono sommessamente scandite evocando scenari decadenti e polverosi.
La tensione viene stemperata nuovamente da un altro intermezzo, è la volta di Baby Dee che ci dà la sua versione di “Idumea”: il suo canto sofferto, intervallato da poetiche incursioni di viola, costituisce un altro momento di grande suggestione. 
“Bind your Tortoise Mouth”, seppur di una estrema semplicità, costituisce a mio parere uno degli high light del disco: un Tibet nuovamente fragile e dolce tramuta i suoi inquieti avvertimenti in una piacevole filastrocca infantile che non avrebbe sfigurato in un disco come “All the Little Pretty Horses”. I meriti vanno anche al bellissimo l’arpeggio di Chasny, che suona fresco e vivace (sortendo quindi un effetto inedito in un lavoro dei Current 93), e l’ottimo, come sempre, supporto agli archi da parte di Contreras.
Il testimone passa ad un imbarazzante Antony (opinione strettamente personale: il suo miagolio tremolante non l’ho mai potuto sopportare) che, previa moltiplicazione dei pani e delle voci, si cimenta in una stucchevole versione a cappella di “Idumea”, ma forse anche questa (a mio parere evitabile) parentesi rivela una certa utilità nell’economia del climax del disco, poiché, se è vero che ad ogni dolore segue una gioia, la prolissità del pezzo in questione riesce ulteriormente ad innalzare, per contrasto, l’incisività delle due successive song, “Black Ships seen last Years South of Heaven” e “Babylon Destroyer”: nella prima la voce di Tibet, accompagnata da una chitarra incalzante e da un coro campionato ripetuto in loop per tutta la durata della track, si fa nervosa ed allucinata, le parole sono scandite come in preda ad agitazione, in un crescendo di frenesia ed angoscia, angoscia che si va a stemperare nella seconda, una bellissima ed enfatica ballata dominata dai bellissimi arpeggi di Cashmore e da una prova maiuscola del singer.
Segue la versione di “Idumea”, per voce ed harmonium, di Clodagh Simonds, una vegliarda pescata chissà dove, che è in grado di svolgere il suo compito in maniera più che dignitosa, con grande pathos e mestiere, ma senza regalare particolari emozioni.
Emozioni che non tardano a giungere con la monumentale “Black Ships were Sinking into Idumea”, 10 minuti in cui succede praticamente di tutto: dopo un primo momento acustico in cui Tibet continua ad affrescarci con classe e grande pathos le sue rivelazioni, il percorso sembra impantanarsi in una stasi quasi ambient, dominata dalle sapienti manipolazioni di Stapleton e dai lamenti soffusi del violoncello, che all’improvviso impazzisce esplodendo in un breve ma intenso intermezzo rumoristico di grande intensità, reso ancora più inquietante da delle frasi riprodotte al contrario. Torna poi la quiete, siamo ai limiti della drone music, sulla quale non tarda ad arrivare il lieve sussurro liberatorio di Cosey Fanny Tutti, che ricama la sua versione di “Idumea” in modo minimale ma con grande efficacia e personalità: una flebile vocina sepolta dalla desolazione imperante.
Ai sospiri sensuali dell’eroina dei Throbbing Gristle subentra ex abrupto la voce baritonale di Antony che, in “The Beautiful Dancing Dust”, una dolce ninnananna pianistica che non supera il minuto,  si riscatta della prova precedente, regalandoci una interpretazione molto intensa e sentita, finalmente all’altezza del suo spessore artistico. Un gioiello.
Il testimone passa quindi a Pantaleimon, non altro che la moglie di Tibet, che ha anch’essa modo di ritagliarsi la sua porticina nell’opera, cimentandosi con la sua voce limpida e fatata (sembra di sentire Julie Cruise nella colonna sonora di Twin Peaks) nell’ennesima versione di “Idumea”, quella più eterea, impreziosita dai delicati e lenti suoni di un dulcimer (simile in tutto e per tutto a un citar) da lei stessa suonato.
“Black Ships in their Harbours” è aperta da un oscuro arpeggio distorto che va a rompere l’idillio acustico che fino ad adesso aveva prevalso: è il punto di svolta. Torna la voce filtrata di Tibet che si staglia inquietante sulle note di una chitarra elettrica talmente marcia che non avrebbe stonato in disco di Burzum. I voli pindarici di Tibet, qui più invasato che mai, raggiungono qui il loro apice in un cerimoniale degno della prima produzione del gruppo: davvero difficile credere che il Nostro si sia convertito alla dottrina cristiana!
Segue una nuova versione di “Idumea”, finalmente interpretata da Tibet (a mio parere la versione migliore: non so se si è capito, ma qui è lui che fa la parte del leone), che fa da prologo al top emotivo del disco, il momento di maggiore intensità, il vero punto di non ritorno: “Black Ships ate the Sky” è dominata dal pulsare ossessivo  della chitarra elettrica, che funge da elemento percussivo, e mano a mano che le sciabordate di feedback crescono e si sovrappongono sfociando in momenti di vero e proprio noise, il cantato disperato di un Tibet invasato all’inverosimile ci conduce sempre più a fondo negli abissi del suo labirinto emotivo e mentale, un crescendo di elevata intensità, un delirio che culmina nella ripetizione ossessiva della frase “who will deliver me from myself!” strillata a squarciagola da un Tibet sgraziato, disperato, rantolante.
C’è ancora lo spazio per un paio di pezzi, la quiete dopo la tempesta: “Why Caesar is Burning”, una dolce ballad che sa tanto di redenzione e di pace interiore finalmente (o provvisoriamente?) raggiunta, e la versione di “Idumea” di Shirley Collins, vecchia gloria della musica folcloristica nonché amica intima di Tibet, che ha l’onore di chiudere le danze, e, devo dire, in modo più che egregio: il suo malinconico canto si staglia sulle desolanti note di un harmonium scordato, costituendo il perfetto commiato per l’intera opera. Qui per la prima volta sono presenti sfumature di speranza, ma, a mio parere, non si può certo definire questo un happy ending, poiché la condanna pende ancora sull’Uomo, ma certo diviene lecito celebrare, in un contesto di desolazione e rassegnazione, un momento di appropriazione di maggiore consapevolezza dopo un’ardua lotta interiore.

Che dire, un bellissimo album che consiglio a tutti gli amanti della buona musica. Il 4/5 è dovuto al fatto che certamente non abbiamo fra le mani il capolavoro assoluto dei Current 93, e soprattutto non abbiamo niente di particolarmente innovativo, dato che il gruppo è andato a pescare a piene mani nel suo repertorio del passato. Certo è che un artista con alle spalle più di venti anni di musica, un’abbondantissima produzione discografica, varia e coraggiosa, non ha certo da dimostrare niente a nessuno, e quindi, preso per sé, volendo prescindere dalla passata produzione, questo è a tutti gli effetti un disco che si merita il massimo dei voti. Unico avvertimento: può seriamente spaccare il cazzo, poiché si tratta pur sempre di una  mazzata di quasi ottanta minuti, un monolite assai uniforme di folk acustico (si è detto che i termini “accessibilità” e “varietà” sono da tarare tenendo conto degli standard compositivi del gruppo, che certo non suona progressive); le brevi parentesi elettriche e rumoristiche non sono certo in grado da sole di scuotere i patiti del brivido elettrico. Sconsigliato quindi a chi non può fare a meno di cambi di tempo, virtuosismi, riffoni, melodie accattivanti e catchy. A tutti gli altri, buon ascolto! 

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