Non mi soffermerò sulla biografia, tanto poi, per chi vuole, tutti i particolari sono in cronaca. Del resto io son di quelli che conta l'artista. Van Gogh era un grande pittore, Dino Campana un grande poeta e tutto il resto conta meno di un cavolo.

Certo è bello raccontare storie, solo che poi quando ci si trova davanti a un faccione psichiatrico, il rischio è quello di fare indigestione di pittoresco. Allora se proprio dobbiamo parlare di un signore un tantino toccato, l'unico tocco che ci interesserà sarà quello del genio. Del resto, quasi del tutto priva di mimesi, l'opera di Daniel Johnson parla da sola. Ovvero ne racconta la storia molto meglio di quanto faremmo noi. “Se c'è un colore quel colore mi acceca, se c'è un colore quel colore non è il mio”.

E non si tratta soltanto dell'espressione in diretta di uno stato emotivo, che, fosse così, di cotanta opera non ce ne faremmo niente. Sarebbe, tanto per dire, come trovarsi di fronte ai disegni di un soggetto disturbato, un soggetto come Emma, ad esempio, e Emma è una specie di lupo. Dovreste vederli i suoi disegni: i contrasti come colpi di coltello, il colore che diventa grumo o materia, la potenza a stento trattenuta dal foglio.

Beh, quella potenza ce l'ha anche Daniel Johnston. Ma il punto non è questo. Il punto è che su quella potenza si scarica l'uragano del talento. La capacità di scrivere canzoni in grado sia di spezzarti il cuore, sia di spedirti in paradiso.

Tutto il suo materiale anni ottanta è incredibile. Melodie quasi allo stato di natura su caos e rumore di fondo. Qualcosa di meravigliosamente imperfetto. .

Anche se poi Daniel Johston, come tutti i grandi autori di canzoni, era un alfiere della classicità e in quel caos ci si è trovato quasi suo malgrado. Non poteva essere altrimenti. Dove altro avrebbe potuto condurre quel mix di eccentricità, incisioni amatoriali e cantautorato sbilenco?

Pensate a frammenti di luna park, a tum tum velvettiani, a smozzicati misticismi gospel, a melodie acchiappanuvole. a pianole angeliche e inceppate, a scampoli Beatles, a stranissimi reperti folk blues. E a tutto ciò aggiungete il tenerissimo rospo in gola di una voce angelica e sgraziata.

Con “1990” le cose cambiano, “1990” è il suo primo disco vero. Bandite quasi del tutto le stravaganze del passato, è un lavoro diretto, essenziale, senza fronzoli. Poche note che scavano dentro, un focolaio di arte grezza dettato esclusivamente dal bisogno. Ben lontano dal favoloso patchwork degli inizi, è sorprendentemente unitario e si attesta su un personalissimo folk virato gospel.

Preghiere, allucinanti apparizioni del demonio, canti di impossibile redenzione, assurde speranze...

E, qua e la, melodie cristalline sospese in un chissà dove, lo stesso chissà dove dal quale provengono...

Una specie di Pink Moon smandrappato, fate conto."Sono stinto come l'azzurro più pallido",diceva Nick Drake.

Si, lo so... Nick Drake è sempre perfetto e Daniel Johnston sempre imperfetto. Ma il risultato è lo stesso.

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