"Hai mai ascoltato "The Bewlay brother", testa di cazzo?" Lou Reed a Lester Bangs...

Mettiamola così: parlando di rock e arte gli anni sessanta di per sè già basterebbero. Che se prendiamo questtro tizi come Barrett, Dylan, Morrison, Reed abbiamo già esaurito il 99% della materia in questione.

Se poi siete di quelli che il rock è solo divin rumore e non significa un cazzo, lasciate perdere sto scritto e andate a fare i buzzurri da qualche altra parte. Sappiate comunque che vi invidio, ho sempre sognato di essere un buzzurro: chitarrona, assolo e rutto libero.

Se invece siete di quelli che pensano che l'arte sia solo roba da artisti, ecco smammate pure voi. Non pensate che vi invidi però. Che blues, folk e rock son arte di per sè, senza sapere di esserlo e senza minimamente sospettarlo.

Poi, certo, si può allungare il brodo, ovvero aggiungere poesia , ma ci vuole arte per farlo, che il troppo stroppia come insegnano zie nonne e saggi d'ogni epoca.

Ecco, Barrett, Dylan, Morrison, Reed quell'arte ce l'avevano e, con l'eccezione (forse) del solo Barrett, sapevano benissimo di essere degli artisti e, addirittura, dei poeti. E, cazzo, lo erano davvero. Al punto che tutto quello che vien dopo appare solo una lunghissima e interminabile nota a margine.

Con qualche eccezzione però, tipo il signor David Jones (in arte Bowie) e tipo il punk..

"Musica da froci fatta da gente che suona male e musica da teppisti che nemmeno suonano". Così parlavano i progster italici dell'epoca. Anzi, non parlavano, tuonavano...oh si, a dispetto della loro buona educazione, tuonavano...

Sbagliando in tutto, tranne che nel mettere in relazione quei loro naturali nemici, visto che Bowie e il punk furono le due svolte epocali dei settanta (una cosa tipo gancio e uppercut).. E parlo di "Ziggy" e "Anarchy", ovviamente.

Che in mezzo a quelle due clamorose uscite discografiche s'agitava in un mare di tranquillità, e quindi non si agitava affatto, una musica eccitante come il the delle cinque a casa di una zia odorosa d'armadio,

Il caro, dolce, pallosissimo progressive inglese...

Poi, ovvio, c'era anche il progressive buono (se non buonissimo), tipo generatore o re cremisi, o tipo Canterbury ma quella era tutta gente, che in qualche misura aveva più affinità che disaffinità con Bowie e il punk.

Certo il Bowie che spaventava le orde progster ("buffone, frocio, pagliaccio, fascista!!!) era quello di "Ziggy".

Ziggy, ovvero la big thing, il risveglio del rock'n'roll anche se in forma quasi parodistica, una cosa tipo prendere un rito sacro e trasformarlo in gioco per bambini.

Con un suono avveniristico però...e secco...e nervoso...e eccitantissimo...e una immagine che emanava una sorta di flusso ipnotico...

Era un territorio vergine, attraversato da una specie di finta innocenza.

Ma prima di questa incredibile estasi di massa esisteva un'altro Bowie, ovvero un tizio inquieto e oscuro capace di annunciare, come nessun altro, la fine dei sessanta in ballate misteriose e piuttosto disturbate.

Certo non tutto era a fuoco, cazzo c'entrava, ad esempio, quel suono alla Cream in "The man who sold the world"? Oh niente, assolutamente niente..ma c'era comunque la scintilla glam che faceva capolino, c'era la tensione della voce del nostro e c'erano soprattutto tutti quei richiami all'incubo, alla confusione e alla follia..

Poi, tra i primi vagiti del suono glam e tanta poesia ancora incartata su sè stessa, Bowie trovò la strada giusta. Prima di imboccarla però, si imbarcò per un giro di giostra fuori dal tempo, regalando ai suoi ultimi fantasmi uno scenario fatto di bizzarria e di classicità.

E stiam parlando di "Hunky dory".

E parlando di “Hunky dory” vengono meno tutti i discorsi fatti finora: l’influenza sul suono dei sixties, il legame con il punk, l’effetto big bang - insomma tutta la retorica sulla buona novella per i tempi a venire, tutto l’argomentare sui re Mida e sulla lungimiranza rabdomantica di chi azzarda un passo nell’ignoto...-

Che qui è come quando si accende la lucina delle cose che son così per sempre e che, a dispetto di mode, tiraculi e quant’altro, non invecchieranno mai.

Mai..

Da una retorica all’altra direte voi, si forse...ma almeno è la retorica giusta. E poi, cazzo, parliamo di uno dei miei eroi...

E’ che “Hunky dory” è “Hunky dory”, è un pezzo unico. E lo sapete cosa significa questo, vero? Immagino di si.

Io lo so per esperienza personale, visto che sono un pezzo unico anch’io. C’ho messo un po’ a capirlo e quando è successo diciamo che la mia vita è migliorata.

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Cos’è un pezzo unico? Oh, semplice: è una cosa che assomiglia solo a se stessa, il che, attenzione, non significa che non rimandi a niente, che anzi semmai è vero il contrario. Quando qualcosa ti entra dentro cambia anche tutto il contesto attorno a quel qualcosa. No, significa che di quel qualcosa è difficile parlare non avendo termini di paragone. Dovresti fare un foto o un disegno, ma fotografare o disegnare la musica è piuttosto arduo, ne converrete.

Anche se poi, in effetti, magari la cover dell’album aiuta, con quella foto ricolorata di un signor Bowie ancora lungocrinito...una sorta di languore fuori dal tempo e, insieme, quasi un richiamo a Warhol....un ottocentesco poeta decadente che fa un disco rock,

Che se magari il rock fosse stato inventato cento anni prima l’avrebbero inventato così, mettendo insieme cose che diresti non si può. Prendete “Quicksand”, con quell’acustica folk che cresce via via fino a divenire stracciata, solo che poi a prendersi la scena sono un piano classicheggiante, (di quelli che di solito non sopporti) e gli arraggiamenti d’archi ( e anche con quelli in genere fai a pugni) del signor Mick Ronson Il risultato alla fine sta tra il folk, il music hall e una psichedelia suo malgrado, ovvero un enorme pasticcio... che però funziona.

Oh si funziona, funziona...come quelle cose aggiungi, esagera, esagera, aggiungi...Come certi Love orchestrali o certi Zombies...il troppo stroppia, ma se non stroppia è magico. Se poi si accompagna, come in questo caso, a un testo sulla confusione e la disillusione, beh, ancor meglio.

Che poi il piano lo suona Rick Wakeman, quel tipo merlinesco e mantellato che quasi da solo, per reazione, ha dato vita al punk (e di questo grazie).

Che cazzo ci fa un tipo simile in un disco di rock decadente?

Ci fa, ci fa...ci fa eccome..e ci sta benone/benissimo. e mica si prende la scena solo in “Quicksand”, no, no è il protagonista assoluto dell’album. Che pare che il signor Bowie gli abbia detto “tu vieni, suoni quel che ti pare e noi ti andiam dietro”

E quindi Rick: grazie per il punk e grazie anche per “Hunky”.

E che dire di “The Bewlay brothers”? Così intima...cantautoriale... e raccolta...con rare rifrangenze ammalianti... e l’esplosione ciclica di un ritornello acido dove la voce si rompe e l’emozione raccolta per strada esce improvvisa dal sacco...e quel finale folle con coretto psicotico che a molti ha richiamato Barrett...

Ecco, “”Quicksand” e “The Bewlay brothers”, l’una un pastiche classicheggiante, l’altra il folkerello acido/psichico definitivo, sono i grandi capolavori oscuri di questo disco, struggenti come pagine di un diario intimo che buona creanza suggerisce di non leggere in pubblico. Difatti si contano sulle dita di una mano le rare/rarissime esecuzioni dal vivo

Ma le canzoni son undici, non due...

E allora facciamo che in un album diviso all’incirca in due (la prima parte dedita a una sorta di cabaret sballato, la seconda a una specie di glam/folk,), oltre ai due brani già raccontati, passano in rassegna:.canzoncine sublimi nella loro canzoncinità, rimasugli tardo freak, numeri alla Sinatra, omaggi agli eroi underground, prove generali della ziggymania a venire...

E trame di filmetti di serie b...e pedagogie semiserie ..,. e un sacco di poesia...si, un sacco di poesia ad occupare l’un per cento lasciato libero dai mostri sacri...

Il tutto con una sorprendente coesione, il che significa che il contenitore è grande quanto ciò che contiene e che ogni brano si colora di una luce unica anche solo per il fatto di essere dov’è. Quasi che, a fronte di una varietà anche notevole, ci trovassimo di fronte a una lunga, interminabile suite.

Ho quasi finito e devo dire di provare una certa soddisfazione a non aver parlato di “Life on Mars”, ovvero il numero alla Sinatra. Facciam così: in una canzone del vecchio Frank difficilmente troverete un testo visionario.

E la voce del signor David? Come quella di Dylan se Dylan fosse nato a Londra....una boutade, certo...marketing sapiente, certo ancora...ma io sono per il mito...e quando ascolto questa musica sono ancora il ragazzino che ero..,.

Però, va beh...siccome è uno dei dischi della mia vita, traggo dai sacri testi Bowiani la seguente definizione “un peculiare baritono alto che scivola impercettibilmente dentro e fuori il falsetto”...non ci capisco molto, ma mi pare che possa andare..

Ecco, ho finito. Rileggendomi mi vien da chiedermi se son riuscito a dire qualcosa di decente.. E’ difficile parlare di un disco che si ascolta ( e si ama) da sempre.

Per dire, quando ascolti mica stai li a pensare a cose tipo quelle che vi ho detto, ascolti e basta..

E allora no, non sono contento..non se penso all’ascolto...e vorrei ricominciare a scrivere da capo...ma siccome credo cambiarebbe ben poco, finisco qui..

Au revoir...,.

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