Curioso come certe grandi crociate morali nascano quasi sempre da passioni molto private. Gratti appena la superficie di una causa “universale” e sotto spuntano motivazioni personali, infatuazioni, piccoli rancori travestiti da ideali. Passaggio in India è proprio questo: un grande vessillo agitato con aria serissima, dietro il quale si intravede una faccenda privata mascherata da epica anti-coloniale. E come ogni crociata personale mascherata da “missione universale”, il risultato è goffo, pesante e, a tratti, ridicolo.
La trama è sottile come carta velina: negli anni Venti, mentre l’Impero Britannico arranca verso la fine, Adela, giovane inglese espressiva come una statua di marmo, accusa l’indiano (musulmano) Dr. Aziz di “stupro” durante una gita nelle grotte - il musulmano non è casuale. Adela è arrivata a Chandrapore con Mrs. Moore, la madre del fidanzato, incerta se sposarsi ma pronta a indignarsi per il comportamento dei suo connazionali verso la popolazione locale - con l’unica, luminosa eccezione del santissimo Mr. Fielding, un autentico capolavoro d’uomo. 😉
Adela attraversa il film con l’entusiasmo di un soprammobile. Priva di motivazioni a parte una patina di snobismo liberal-chic e un certo voyeurismo pruriginoso per certi bassorilievi da Kamasutra. Mrs. Moore, invece, sembra in preda a un trip mistico: fissa il vuoto, ansima e vaga come sotto l’influenza di oppioidi, soprattutto nella scena della grotta, dove pare più una visionaria che una rispettabile signora inglese.
Dr. Aziz è la pièce de résistance del cringe. Oscilla istericamente tra macchietta e serio attivista: un momento prima sbircia scollature, quello dopo si perde in stazione, e nel frattempo sviluppa un’ossessione inspiegabile per Mrs. Moore. È una bussola rotta che non segna nessuna direzione, ma ha solo rotazioni nevrotiche.
E Alec Guinness…indicibile. La sua interpretazione da “guru indiano” è così fuori fuoco da diventare quasi surreale. Il messaggio anti-coloniale atterra con la grazia di un blocco di marmo su un piede.
La colonna sonora? Una fanfara pompata a steroidi: “esotica” a forza di cliché, ulula “India!” come un dépliant turistico con manie di grandezza.
Ed ecco il colpo di scena extra-filmico. La relazione di Forster con un egiziano viene per così dire trapiantata e “sublimata” in India nel rapporto Aziz–Fielding. Il commento non è per la storia d’amore in sé - affari suoi - ma il modo patetico in cui Forster la sublima scegliendo di farsi rappresentare da Fielding: l’inglese più nobile, puro e saggio mai concepito. Attorno a questo autoritratto idealizzato costruisce una storiella banale e stiracchiata su una ragazza confusa che scambia le proprie ansie per un’aggressione. Quello che viene presentato come “ponte culturale” è in realtà una passione privata rivestita di tappezzeria coloniale e, forse, anche un modo per punzecchiare la società britannica che non approvava i suoi desideri.
Il risultato? Fielding è un salvatore improbabilmente perfetto, Aziz l’oggetto esotico del desiderio, e le donne - la povera Adela in primis - restano a vagare ai margini come note a piè di pagina. D’altra parte si sa, le donne sono tutte isteriche, da giovani per gli ormoni, da vecchie per l’invidia.
Alla fine resta una sfilata di interpretazioni mediocri appese a una storia sciocca su una ragazza convinta di essere stata aggredita… ma certamente no. Lungo, tronfio e pieno di sé, questo “classico” è un pachiderma cinematografico: barrisce forte, dice poco e, chissà come, continua a essere idolatrato.
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