Probabilmente mentre scrivo questa recensione sono inconsciamente infastidito.
Ho capito che non riuscirò mai a spiegarmi di come questi Dead Elephant, power-trio formatosi nel cuneese nel 2004, siano saltati fuori quasi dal nulla (solo una gavetta lunga quattro anni negli States e un primo EP pressoché irreperibile troverete spulciando il loro curriculum vitae) ed abbiano partorito questo capolavoro in una maniera così bruciapelo.
Ho capito che non riuscirò mai a descrivere un prisma così perfetto nella sua eterogeneità, un flusso di magma in perenne cambiamento. “Lowest Shared Descent” (’08, Robotradio Records) è il perfetto lavoro di sintesi delle influenze più disparate che ciascun membro ha interiorizzato per poi buttarle in questo imprevedibili crogiolo e riordinarle come il migliore dei mosaicisti. Che siano crude mazzate sulla scia del post-hardcore più truce (“Introducing my eyes, in flames”, “Another fucking way to say I miss you”), che siano sognanti trips quasi al gusto di Krauti (la progressione centrale di “Black Coffee Breakfast”, uno dei pezzi più belli degli ultimi -sì, esageriamo- dieci anni), che siano claustrofobiche sonorità dark-ambient (“Abyss Heart”) o devastanti progressioni heavy-psych (“Clopyxol”) non troverete una-nota-una fuori posto al loro interno. Un opera di estremo citazionismo (nella conclusiva “The Worst & The Best” si dilettano addirittura a mettere in musica un testo di mastro Bukowski) che in questo suo continuo rimandare ha forse il proprio limite e punto debole.
Ho capito che non riuscirò mai ad invidiarli abbastanza perché, nonostante all’esordio, sono riusciti a scomodare gente del calibro di Luca Mai e Eugene Robinson che partecipano come guests rispettivamente in “Post-Crucifixion” (devastante noise-rock reso ancora più inascoltabile dal sanguinante sax della mente dei connazionali Zu) e “The Same Breath” (feroce blues-core a cui il leader degli Oxbow presta il suo inconfondibile timbro vocale).
Ho capito che non riuscirò mai a arrabbiarmi abbastanza per il fatto che questo frullato con gli ingredienti realizzati dai migliori chef (Ash Ra Tempel, Cluster, Unsane, Jesus Lizard, Neurosis, Lustmord, e chi più ne ha più ne metta) in Italia non sia apprezzato, ma bensì lasciato esportare tranquillamente. Una pietanza di tale fattura sulla cui scatola andrebbe appiccicato fieramente un adesivo tricolore, lasciata però esclusivamente nelle grasse e oleose mani di qualche critico americano col fegato corroso per la troppa CocaCola.
Signori e signore, questi Dead Elephant hanno compiuto il miracolo. Non lasciateveli (e non lasciamoli) scappare.
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