I più pettinati del quartiere sono tornati. Qualora mi vogliate chiedere delucidazioni per pettinati, ve lo semplifico in precisini. Il fenomeno Deafheaven è un qualcosa che non è difficile da comprendere, però mi rimane ancora un attimino indigesto. Un po' come una buona paella. La formazione di San Francisco non è nè la prima nè l'ultima band che si è trovata al momento giusto, al posto giusto, sotto i riflettori giusti, con gli artefici giusti e tutto ciò che li circondasse era nella posizione giusta sulla scacchiera per fare la mossa giusta. L'altra parola chiave per decifrare il codice del successo è hype. Ecco, qui c'è da fare una distinzione fra la percezione oltreoceano e la percezione europea (o, perlomeno, italiana). È vero, Pitchfork oramai darà di default come minimo un 8.0 a ogni loro uscita, a meno che non ci sia Ian Cohen a fare la recensione, han suonato a prestigiosi festival quali il Primavera, lo stesso Pitchfork Festival a Parigi, oppure nella desertica Coachella Valley erano lì a un passo da giganti quali Kanye West. Potete capire da soli che ho sciorinato questi nomi solo per inquadrare un po' il contesto con cui si deve affrontare l'argomento Deafheaven oramai; anche se poi in Italia al Lo-Fi c'erano un'ottantina di persone e al Magnolia in pieno giugno si scollinava sopra cento con uno sforzo degno del miglior ciclista in fuga. "Sunbather", con quella copertina rosa lì, apprezzata pure dai guru della Apple, ha avuto il merito di rompere le catene dell'underground che tenevano ben ancorati i Deafheaven a un circolo ristretto di affezionati. Quelli che potranno dire: "Sì, loro li conoscevo fin dai tempi di quel garage di Palo Alto e con Roads to Judah ancora in fase demo/pre-registrazione". Da quel momento, dall'uscita di "Sunbather", i Deafheaven non si sono più voltati indietro. Salutata pure mamma Deathwish, i nostri si son piazzati su ANTI-, la label sorella di Epitaph. Se a livello di distribuzione i nostri acquisiscono ancor più vigore, a livello di registrazione il gruppo californiano si è ancora rivolto alle sapienti mani dello storico amico Jack Shirley. Un po' di old school, insomma. È dunque tempo di nuovi cambiamenti, nuove direzioni, nuovi lidi ignoti. È ora di "New Bermuda". Che no, sorprendentemente, non è la nuova linea accessori di Calvin Klein.

Badate bene, il tono sarcastico della recensione non è da intendersi come denigratorio. Altrimenti non li avrei dato i miei soldi per ben tre volte, non avrei dato cinque stelle a "Sunbather", non continuerei ad amare "Roads to Judah" e mi dovrebbero internare per bipolarismo. Il punto è che attorno a questi Deafheaven, quando se ne deve parlare, oramai vedo una gigantesca lente macroscopica. Ogni movimento e spostamento d'aria viene analizzato con tecniche che rivalutano gli scherzoni di Grissom prima di lanciare gli Who in C.S.I. La serietà con cui viene affrontata la proposta dei Deafheaven, punto di vista personalissimo, li porta a una sopravvalutazione non meritata. In parole povere, si cerca di vedere un po' troppo oltre. I Deafheaven non hanno (per ora) la profondità incisiva di tutta quella scena del Northwest americano, non hanno lo spiritualismo e il disagio di act come i Leviathan, non hanno quell'atmosfera marziale degli Altar of Plagues, o ancora la complessità esecutiva dei Blut Aus Nord. I Deafheaven gravitano in una galassia propria, alcuni paragoni sarebbero decisamente fuori luogo. Inserendo questo "New Bermuda" nella discografia dell'oramai a tutti gli effetti band (non è più solo il duo McCoy/Clarke a comporre) c'è una netta scissione da "Sunbather". La componente shoegaze che tanto risaltava, è stata abbandonata per un sound più ruvido, meno aggraziato. C'è sempre quell'altenarsi violento fra parti cupe e altre più brillanti e dilatate. La furia senza compromessi dello scream di George Clarke è la costante che non può scomparire. Le composizioni si fanno più varie, alla ricerca di nuove sensazioni nella quale bilanciarsi. Fra melodie drammatiche e interludi ariosi che interludi non lo sono più, prendendosi il giusto palcoscenico e ampliando il discorso più volte accennato in "Sunbather".

I Deafheaven non sono rivoluzionari, ma sono abili conoscitori della materia da cui attingono a piene mani. "New Bermuda" si dimostra essere poliedrico e più assortito nelle scelte compositive che "Sunbather". L'effetto monolite è scongiurato da sfumature più cangianti che rivelano un gruppo capace ad occhi chiusi di lasciarsi cullare fra arpeggi delicati dai rimandi post rock e l'irrequietudine del tremolo picking di stampo black metal. Ma, in fin dei conti, guardiamoci allo specchio. Cosa rimane di black metal (sì, intendo post black blablabla) ai Deafheaven? Sicuro, la voce di Clarke. Sicuro, certe sfuriate di Daniel Tracy il quale si conferma più che un batterista, un robot da combattimento, ma per il resto "New Bermuda" rappresenta un nuovo capitolo nella carriera dei Deafheaven perché li stacca definitivamente dai retaggi propriamente black. La produzione di Shirley è bombastica (esiste sta parola in italiano o me la son inventata direttamente dall'inglese? Boh, accontentatevi) e sottolinea ulteriormente la propensione a mutare forma e reinventarsi dei Deafheaven. I riff di McCoy son molto più decisi, fendono come una lama che provoca un taglio netto e, talvolta, si sprigionano pure in assoli con il wah-wah, tanto da far lacrimare Kirk Hammett. La coda di "Gifts for the Earth" mi ricorda gli Oasis, pensate voi. E gli Oasis mi stanno sul cazzo, quindi non ve ne parlerò. L'onda emotiva dei Deafheaven però scombussola e non di poco, il cripiticismo del graffiato di Clarke è più volte liberatorio e, come un direttore d'orchestra, annuncia i cambi di direzione che il pezzo vuole seguire. Dal vivo poi, nota personale, tutti i nuovi brani rendono e non poco. I Deafheaven sanno essere terremotanti e disperatamente rigeneranti, è questa la loro capacità maggiore. Indossano la loro personalissima maschera e si tuffano nelle profondità più oscure di un gelido oceano, ma come scompaiono, sanno anche risalire verso raggi più caldi e luminosi. Questo mood è presente da "Roads to Judah" e mai cambierà, questo è nel DNA della band. "New Bermuda" dividerà? Sicuro, ma i Deafheaven sanno benissimo quel che stanno facendo. Lo sanno fin troppo bene.

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